Corriere della Sera, 14 novembre 1974. Pier Paolo Pasolini scrive il suo articolo più celebre: “Cos’è questo golpe? Io so”. Scrive, dopo il suo proverbiale incipit, “io so i nomi”, una frase complessa e oggi più attuale che mai: “All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici”. Da sempre, il turbine media-giuridico-politico-borghese, mira a detonare entro cortocircuiti che prendono forma solo dopo anni dal loro azionamento coloro che stanno tentando di mostrare le evidenze a cui l’ipocrisia del potere condanna “La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività”. Ma dove sono finiti, ammesso che esistano ancora, gli intellettuali di cui parla Pasolini? Nel 1974 Pasolini poteva immaginare, ma senza prevederne la potenza, cosa sarebbe accaduto nel momento in cui sarebbe scomparsa l’autonomia del potere più importante: quello dei media, nel momento in cui attraverso i commenti istantanei dei social network, si sarebbe incrementato il movimento con cui un intellettuale "viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al 'tradimento dei chierici' è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere”. Sta facendo discutere il caso della Gintoneria, l’arresto di Davide Lacerenza, e l’ovvietà per cui questo fatto giudiziario non sia che la punta di un sistema di un iceberg più profondo: tutti sappiamo i nomi di chi fotte e se ne fotte, di chi sfrutta o di chi sceglie la strada più semplice della prostituzione rispetto al farsi pagare 700 euro al mese a partita Iva per un onesto lavoro per cui serve una laurea (e questo si che sarebbe uno “scandalo”), e tutti sappiamo i nomi di politici, autorità varie, giornalisti, scrittori, che usano questo sistema che una volta era fatto di terrazze romane mentre oggi è fatto di locali nei privè milanesi. Ma come diceva sempre Pasolini, sappiamo i nomi ma non ne abbiamo le prove.

Sappiamo i nomi di chi falsifica le notizie, i nomi di chi le usa a suo uso e consumo, forse sappiamo addirittura i nomi dei servi del capitalismo che fanno roteare questioni morali centrali alla rivoluzione per renderle strumento del riformismo reazionario: sappiamo che quando la Piazza e il Potere vogliono le stesse cose, che quando le questioni morali sollevate dall’attivismo coincidono con quelle delle multinazionali, qualcosa non funziona più. Lo sappiamo, sappiamo anche il nome di questa cosa, ma non abbiamo nessuna prova. “L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento”, dice Pasolini. Perché quando l’intellettuale di discosta dal “like”, quando prova a difendere questioni di principio contrarie al vento del potere e delle suo nuove forme, quando l’intellettuale prova a sfidare la gigantesca coltre di fumo che è il perbenismo italiano… quell’intellettuale muore, viene fatto a pezzi, si piega e chiede scusa per tornare a fare ciò che faceva prima: un applauso, nessun contributo reale, e quale difforme meccanismo di rientro nei ranghi. È difficile anche solo sperare che qualcuno sia arrivato a leggere fino a qui, le soglie di attenzione sono state abbassate, si è mirato a far credere che le macchine ci somiglino mentre siamo noi che siamo stati resi simili a loro. Non è ChatGpt che scrive bene, siamo noi che scriviamo di merda: siamo noi che non leggiamo più nulla che non siano titoli da commentare. E allora vediamo intellettuali occuparsi del sesso degli animali di Marte, dell’alleanza tra popoli di Giove, dell’ecologia cristiana, dei polipi e della queerness al Salone del mobile. Intanto sappiamo i nomi di chi respinge e uccide i migranti, di chi picchia i carcerati, di chi affama a poche centinaia di euro ragazze che devono fare la nuova grafica di qualcosa e che poi magari scoprono che “lavorando” due giorni in Gintoneria guadagnano il salario di un anno, di chi processa il malcostume a seconda delle tendenze di Instagram.

“Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili”, dice Pasolini, non ci resta che accusarci tra noi: che schifo la prostituzione, che schifo i soldi sperperati, che schifo i macchinoni… e poi Milano, ovvero l’Italia, invece è tutta così. Appesa a una doppia morale pubblico-privato, incapace di capire chi tenta di dire ancora che “tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere”… mettersi nei guai, denunciare il potere e la sua capacità di riqualificarsi per trasformare i vecchi nemici in nuovi alleati. Nell’epoca in cui un governo fascista fa le stesse leggi che farebbe il governo delle piazze rosa e verdi, ma mentre il Mediterraneo centrale resta un cimitero, alle persone povere e disperate e preclusa l’arte che è diventata un appannaggio per figli e figlie di papà, e in quest’epoca dove un poliziotto che uccide fa meno notizia di un fischio ad un culo, possiamo ancora dire che sappiamo i nomi di chi ha fatto tutto questo. I nomi di chi ci addestra con i social e ci fa da editore, i nomi di chi ci dà da mangiare e bere tramite bottiglie biodegradabili, e i nomi di chi ha capito che ci stavamo lamentando per cose giuste e ha trasformato quel giusto nella sua arma di assorbimento capitalistico. Ci resta la deriva, quella dei situazionisti e di Guy Debord, e il provare ad arginare l’algoritmo di un Sistema che legge i bisogni e li trasforma in consumi. L’arma che mette insieme il giuridico col politico, il mediatico col morale, l’arma che ci fa accettare di alzarci la mattina solo per pagare le tasse coi nostri stipendi da partite va mentre l’Oscar dato a Anora racconta meglio cosa sta succedendo che un qualsiasi mio collega. Racconta la Gintoneria, racconta l’ossessione per queste cose: l’impulso di un mondo in cui ogni cosa è prostituita, disabituati come siamo a che le cose possano arrivarci solo perché si meritano o perché i fatti raccontano una storia diversa da quelle dei nomi che qui dovremmo denunciare davvero.
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “impoverimento cognitivo" (e che in realtà è una serie di "impoverimenti" istituitisi a sistema di protezione del potere dei media).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Genova del luglio del 2001.
Io so i nomi dei responsabili della morte di Carlo Giuliani, Stefano Cucchi e Guido Regeni.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato le grandi questioni morali del nostro tempo come legge della domanda e del welfare aziendale e che porta ad accettare condizioni di lavoro allucinanti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima esercitazione di massa mondiale attraverso la pandemia da Coronavirus nel 2020 e una conseguente reazione con una normalità dove abbiamo rinunciato alla nostra libertà in cambio di presunta sicurezza.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e un giudizio, hanno dato i loro soldi alla Gintoneria e assicurato la protezione giuridica e politica a un sistema che è un replicare di Gintonerie.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi mediatici che hanno il compito di ristabilire l’ordine: non farci chiedere di Alberto Trentini, della rivolta al carcere Beccaria, della strage di Paderno, del naufragio di Cutro, del Processo a De Pasquale e Spadaro.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro alla tragicità di ragazze che hanno scelto le suicide atrocità della prostituzione.
Io so, e anche voi sapete, tutti questi nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli.
“Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”
Io so perché sono un intellettuale, un filosofo e scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede nonostante la violenza che gli è stata scaricata addosso. So quanto è difficile conoscere tutto ciò, so quanto non paga provare a conoscere, so quanto sia difficile immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace su quella palude di imbecillità collettiva che sono diventati Facebook, Instagram o TikTok. So che esistono persone che coordinano fatti anche lontani, che non amano chi prova ancora a fare l’intellettuale senza piegarsi alle leggi del consenso, e che mettono insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro sociologico. So tante cose, ma non so più a chi dirle. Né che senso abbia ancora provare a farlo.
