Vittorio Sgarbi, l’uomo che ha fatto dell’energia e della provocazione il suo marchio di fabbrica, oggi si ritrova davanti a un nemico che non può affrontare con la dialettica o con la cultura: la depressione. Dopo un ricovero in clinica, il critico d’arte ha aperto uno squarcio sulla sua fragilità in un’intervista a Repubblica, dove si mostra come mai prima d’ora. Non più il polemista inarrestabile. Oggi Sgarbi è un uomo che fatica a trovare la voglia di alzarsi dal letto, che ha perso chili e certezze, che ripensa alla sua vita con una consapevolezza amara. “Così, come mi vedi”, risponde quando gli viene chiesto come sta. Gli occhi del giornalista si posano su un corpo smagrito, su un volto scavato dalla malinconia: “Ho perso parecchi chili. Faccio fatica in tutto. Riesco ancora a lavorare, a tratti. Ho sempre dormito poco. Ora passo molto tempo a letto”. Sì, la mancanza di voglia è il tratto tipico di quella fottuta depressione che si prende ogni parte di te, ogni spicchio di desiderio, ogni possibilità di mordere la vita. Il peso del disagio mentale è uno di quelli che non si misurano con la bilancia, ma con la fatica quotidiana di affrontare ogni singolo giorno.

Soprattutto quando ancora non si è fuori dal tunnel del disagio mentale parlarne è di una difficoltà che non potete nemmeno immaginare. Vuol dire raccontare la propria parte più intima, vuol dire denudarsi, vuol dire concedersi inerme agli avversari che imperterriti e quasi senza pietà continuano ad attaccarti. Il disagio mentale, in questo caso la depressione, è ancora uno dei problemi più seri e irrisolti del nostro secolo: è quel qualcosa che ci fa sentire soli, incompresi, a tratti anche sbagliati. Sgarbi si rifugia nei ricordi, in quel rapporto totalizzante con la madre, presenza costante nella sua vita e nella sua formazione. “Mia madre aveva un temperamento simile al mio, pieno di slanci e di entusiasmo. Vedeva in me qualcosa su cui proiettare una serie di valori e visioni. In qualche modo mi immaginava come un prolungamento della sua mente. Era la mia principale collaboratrice: qualunque cosa facessi, che fosse relativa alle opere d’arte, alla scrittura, alle mostre, alle collezioni, lei era parte attiva di questo processo. Mio padre, invece, era uno spettatore davanti a un teatro di cose pensate da me e in parte realizzate con mia madre”.

Una vita intera a correre, a riempire il mondo con la propria voce e il proprio sapere, e ora, invece, il silenzio regna sovrano: "Trascorro una fase di meditazione dolorosa su quello che ho fatto e sul destino che mi attende. Le cose che ho scritto, le opere d’arte, tutto ciò che vedi è un progetto di sopravvivenza. Qualcosa che rimanga oltre la mia vita”. Si guarda indietro, al bambino che era. A quello studente ribelle che sfidava i preti leggendo Senilità di Italo Svevo in collegio, e che veniva rimproverato con una beffa da manuale: “Disse ai miei genitori: ‘Vostro figlio deve leggere libri formativi’. ‘E quali?’, chiese mio padre. Rispose: ‘Il giovane Werther di Goethe’. Ma anche quel libro era proibito!” La sua vita è stata un continuo giocare con i limiti, sfidarli, ridefinirli. Oggi, però, non sembra più esserci voglia di combattere: “Oggi guardo le cose senza il desiderio di essere coinvolto. Senza rappresentare una parte”, ammette. Eppure, per anni, è stato prigioniero di quell’immagine pubblica di uomo irruento: “Era una realtà profonda che diventava immagine. Oggi, nel ripensare a certe cose di allora, è come se vedessi un altro me”.

Gli anni della tv, delle risse verbali, degli scontri memorabili. Ma la televisione era una trappola? “Non c’è dubbio. Non era una recita a teatro ma la rappresentazione del mio temperamento. Questo è stato il senso della televisione per me”, risponde. Forse un modo per esorcizzare qualcosa, per gridare al mondo la sua esistenza, fino al punto di non riuscire più a distinguere il vero Sgarbi dall’immagine che gli altri avevano di lui. Oggi la sua realtà è un’altra. Il peso della vicenda giudiziaria, l’incertezza sul futuro. “In modo intenso, direi devastante. Di alcuni atti, eseguiti in assoluta naturalezza, mi vengono imputati una serie di comportamenti che non erano i miei. Ho sempre cercato di avere cura e attenzione per le opere. Che dal loro studio, e in certi casi dal loro acquisto, se ne ricavino le mie cattive intenzioni mi crea certamente dei turbamenti sgradevoli”. Il gioco è finito? “Sì, come un bambino mi sono divertito molto. Oggi molto meno. Oggi mi chiedono di rispondere di quello che avrei fatto. Come se i giochi fossero diventati delle realtà pericolose. Giochi difficili. Questa è la percezione del bambino che si è scoperto adulto”.

Il tempo del rumore è finito, resta solo la paura: “Rumore del passato e paura del futuro. Paura, incertezza, mancanza di capacità di programmare in maniera tale che io possa sapere come e quando qualcosa avverrà. È un dubbio e anche un disturbo della percezione”. Cosa resta, allora, di Vittorio Sgarbi? Di quell’intellettuale che ha segnato il dibattito culturale italiano per decenni? “Il mio dolore, che contrasto con l’assenza. E questa con l’attesa”. Sentirlo parlare così è straziante, soprattutto perché c’è la consapevolezza che sono milioni gli italiani che si sentono come lui. Per chi non lo sapesse, o facesse finta di non vederlo, beh, il disagio mentale uccide in mille modi. E, spesso, ci si sente morti anche quando il cuore batte ancora. Ma c'è una cosa che non può passare inosservata e che molto probabilmente è legata al suo attuale stato d'animo: la sua vicenda giudiziaria. Le accuse contro di lui sono molto pesanti e lui pensa di uscirne “sperando che si affermi una verità, che è la verità dello spirito con cui ho fatto queste cose”. Ecco, forse per la prima volta siamo davanti a una vera e propria ammissione di Vittorio Sgarbi. Un'ammissione in cui però il critico d'arte chiede una sorta di grazia, provando a spiegare e a far capire che ciò che lo ha sempre mosso è stato quel suo incondizionato amore nei confronti dell'arte. Sì, l'aspetto penale, giuridico è tutt'altra cosa, ma è come se lui ci chiedesse, quantomeno moralmente, di restituirgli una piccola parte di tutto ciò che lui ha donato all'Italia e alla nostra cultura.