Questa rubrica di recensioni dovrebbe titolarsi “Canaletti tortura Cappellani”. Mi chiede infatti di recensire (dopo svariati abusi, una volta mi ha persino detto: “Non c’è bisogno che ti togli le mutande, ma se lo fai ci fai contenti tutti”) La felicità nei giorni di pioggia di Imogen Clark (Libreria Pienogiorno, 2025), a me! Va bene. La storia illuminante di questo romanzo è la seguente: una mamma crepa, lasciando sua figlia, Romany, orfana. Così la mamma morta, mortissima, lascia la cura della propria figlia, appena diciottenne, ai suoi quattro amici fighissimi. Adesso, Canaletti, quando sono rimasto orfano io, dopo avere perso la mamma in giovane età e dopo avere dilapidato il patrimonio portando a pranzo e cena mio papà al ristorante (due infarti, un ictus, un bypass, ero certo che se si fosse seduto alla tavola da pranzo dove per 34 anni aveva mangiato con mia mamma ci sarebbe rimasto secco), quando infine sono rimasto solo mi sono ritrovato con una cugina che mi dava supporto alimentare facendomi i panini con la cotoletta. Angie no, Angie ha amici fighissimi. C’è Tiger, l’eterno giramondo che si chiama come i negozi hipster svedesi. C’è Leon, “timido e pratico” (così dice la quarta di copertina anche se io, in natura, non ho mai visto e neanche sentito parlare di un timido che sia anche pratico – evidentemente, oramai, chi scrive le quarte di copertina si droga o soffre di allucinazioni per conto suo) che è anche un “genio musicale”. Poi c’è Maggie, “sicura di sé che si identifica a tutto tondo con la sua professione” (che professione non ve lo dico, non voglio fare spoiler e poi con questa minchia che mi sono letto il libro). E infine c’è Hope: un mistero. Nessuno ha mai sentito parlare di Hope. E figurati se non c’era un mistero.

Adesso, voi lettori, quando morirete, dovreste avere almeno tre amici noti e uno misterioso ai quali affidare i vostri figli orfani, altrimenti – sappiatelo, e se non lo sapevate adesso ‘o sapete – siete sfigatoni. “È l’inizio di un viaggio – recita sempre la delirante quarta di copertina - in cui ciascuno dovrà fare i conti con il dolore della perdita, con l’incredulità, con fantasmi del passato da affrontare e misteri da dipanare. E mentre ognuno sfida le proprie paure, a volte vincendole, a volte scendendoci a patti, Angie, quella che vedeva più lontano di tutti, insegna loro che ci vuole una tribù per crescere, se stessi e pure una bambina”. Adesso, organizzatevi in tempo: voi tutti morirete. Ce l’avete una tribù? I miei genitori, ammazzati da varie cose, non hanno fatto in tempo a crearsele, per questo ho vaghi ricordi di me che cercavo un panino imbottito mentre cercavo di rimettermi in piedi col lavoro che – per stare vicino al mio unico genitore rimastomi – avevo abbandonato. Non fate l’errore dei miei genitori e fatevi una tribù: ma figa però, non so, un genio musicale, un giramondo, qualcuno dedito alla propria professione e una misteriosa – è il minimo. Ovviamente, dato che siamo nel campo del delirio più totale, so che al lettore devi dare anche la possibilità di sognare, altrimenti non esisterebbero gli Harmony. Non vieteremmo mai a nessuna Anastasia – bruttina ma solo perché si trascura – di sognare di essere presa a schiaffoni dal miliardario Mr. Gray (mai nessuna che vuole farsi prendere a schiaffoni dal macellaio dell’Eurospin, questa è più una fantasia gay), così come non vieteremo mai a nessuna di identificarsi nell’orfana hipster-chic Romany o nella mamma morta-figa Angie. Soltanto che magari, i libri, dovrebbero dirlo che, se sei un cazzo di orfano, nei giorni di pioggia sai che succede? Ti piove dentro casa (se ce l’hai). Altrimenti non sono libri, sono malattie mentali.
