Cos’è La Grazia? Cosa sarà? Ce lo siamo chiesti tutti al Lido, a Venezia, a casa. Ebbene, l’ultimo film di Paolo Sorrentino con Toni Servillo, scelto come titolo d’apertura alla 82esima Mostra del Cinema di Venezia è la storia di un uomo. Anzi, la storia di un Presidente della Repubblica, Mariano De Santis (Toni Servillo), che ha una figlia giurista come lui, Dorotea (Anna Ferzetti). Una storia d’amore, aveva fatto sapere il regista. E una storia d’amore è in effetti La Grazia. Un'enorme, grande, delicata, storia d’amore. Tra un uomo e una donna smarrita, una figlia che segue suo padre, la voglia di vivere la vita com'è.

Al centro di La Grazia: la fatica e la responsabilità di un Presidente di fronte al suo popolo. Deve decidere su due delicate richieste di grazia e prima della fine del suo mandato dovrebbe firmare una legge sull’eutanasia. Sulla 'scelta' si muove la storia, dicevamo, tra immagini diverse, alcune 'sbagliate', altre che ricordano le terre di Olmi e Delpero e sembrano estensioni di quei sogni che Mariano De Santis non fa più da tanto tempo. Non sogna, forse, perché non vede l’immensità nei suoi giorni tutti uguali, come canta Andrea Laszlo De Simone.
Tutta la volontà
D'un tratto se ne va
Di fronte all’ovvietà
Tutto questo è immensità
(Da L'immensità, Andrea Laszlo De Simone)
De Santis è un uomo che 'non ha mai scelto niente', ma ha sempre cercato la verità e probabilmente per questo ha atteso, pazientato. Ma che cosa è giusto, che cosa è vero? Alla fine se lo chiede anche lui. Anche se la vita è fatta non soltanto dalle leggi, ma da esseri umani, come gli ricordano le persone attorno a lui. Da La Grazia s’accende, l’immensità. Si apre, si leva una nuova fase, un nuovo capitolo del cinema del suo regista che oggi parla di fine vita, di agonia, torna alla nostalgia (che in fondo non ha mai abbandonato), ma se in Parthenope aveva cercato di prendere un giovane mondo tra le mani, qui cerca la vecchiaia. Anzi, di afferrare la malinconia degli anni che passano. La fase della vita che ha sempre letto, studiato, osservato tra le rovine di Roma, a casa della gente, tra i sospiri dei disillusi. Questa volta lo fa attraverso una nuova lente, perché è tutto grandiosamente recitato. La Grazia è una prova d’attore (straordinaria per tutto il cast), perché se è vero che il cinema è più del regista, il teatro di chi recita, La Grazia ha saputo essere entrambe le cose. Un 'prepotente' melodramma che divide spettatore e critica.
“Di cosa sono fatti i nostri giorni?”, si chiede il Presidente, se lo chiedono tutti, compresi i detenuti in cerca di grazia. Forse di speranza, forse di niente, forse tutto quello a cui assistiamo è una lenta attesa o forse c'è di più. E all’improvviso, seduti in sala, torniamo a È stata la mano di Dio: all'indefinito. A quando rivelano a Fabietto che i suoi genitori sono morti e lui, in ospedale, urla disperato ‘non me li hanno fatti vedere', non ce li hanno fatti vedere. Ecco anche nel suo ultimo film non vediamo tutto, ma sentiamo che c'è qualcosa. È il desiderio di leggerezza che nel suo cinema si rincorre tra le parole e le statue. Qui è la canzone di Guè (presente nel film) ascoltata in cuffia dal Presidente, il compagno della detenuta fuori dalla finestra che la aspetta, la delicatezza di ricordare Aurora camminare tra gli alberi, il suo vestito verde nei mesi invernali, oppure, come sospira al telefono De Santis durante un’intervista, è la grazia.

