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Abbiamo (ri)ascoltato Radioactivity, il disco dei Kraftwerk di 50 anni fa, ma com’è? Un album che ha predetto la musica di oggi e di domani (e tornerà dal vivo a Pisa e Taormina)

  • di Aldo Nove Aldo Nove

6 luglio 2025

Abbiamo (ri)ascoltato Radioactivity, il disco dei Kraftwerk di 50 anni fa, ma com’è? Un album che ha predetto la musica di oggi e di domani (e tornerà dal vivo a Pisa e Taormina)
Aldo Nove ci racconta perché riascoltando, a cinquant’anni dall’uscita, “Radioactivity”, è ancora un disco che si apre alle nuove generazioni con stimoli sorprendentemente inediti, uno scrigno da cui si continua a estrarre novità

di Aldo Nove Aldo Nove

“Per quale motivo, se voglio ascoltare sonorità che mi appaiano nuove, devo ascoltare un brano dei Kraftwerk di almeno 40 anni fa?” Così si chiedeva, una decina di anni fa, uno degli ultimi grandi filosofi che hanno frequentato questo disagiato pianeta, Mark Fisher, autore del celeberrimo (e disperato) “Realismo capitalista” e attento osservatore dell’evoluzione (o involuzione) del rock. Proviamo a rispondergli riascoltando, a cinquant’anni dall’uscita, “Radioactivity”, album seminale quanto anomalo, “segno dei tempi” a venire. Nel 1975 la formazione dei Kraftwerk, che tornano live in Italia il 18 a Lajatico (Pisa) e il 25 al Teatro Antico di Taormina, quella che si confermò almeno per il futuro decennio nella versione “classica”, aveva già alle spalle una complessa storia di sperimentazioni e ricerche che, a partire dal 1967, ha visto emergere le due figure dominanti di Ralph Hutter e Florian Schneider, pionieri dapprima di una sorta di free jazz con suggestioni classiche e orientaleggianti: “Tone float” è il loro primo, immaturo ma ricchissimo di sperimentazioni, album; e il gruppo si chiamava “Organisation” (anche se nelle ristampe future verranno presentati come “pre-Kraftwerk”).

Mark Fisher
Mark Fisher

Erano gli anni della piena maturità di ciò che fu il rock’n’roll, con l’avanzare del Progressive, gli innesti con jazz e classica e le prime suggestioni elettroniche. In Germania fioriva la “Cosmic music” dei Tangerine Dream e dei Popol Vuh (poi sempre più prossima alla etnica) ma soprattutto fiorivano, sull’onda delle ricerche di Stockhausen, nuove strumentazioni elettroniche, nuovi orizzonti sonori. E così, proprio grazie ai Kraftwerk e al loro complessivamente dimenticabile (a parte la perla di cui stiamo per parlare), omonimo primo album, si è soliti identificare la nascita del pop elettronico: il brano si chiama “Ruck-Zuck” ed è una suite ipnotica dove ancora il flauto traverso e strumenti tradizionali si accostano a sonorità quasi industrial. Da allora, Hutter e Schneider sembrano vagare alla ricerca di un’identità (in Kraftwerk 2 e nel successivo “Ralph & Florian”) tanto ricca di “nuove proposte” acustiche quanto vaghe, come a comporre un mosaico che prende forma nel 1974 con “Autobahn”, suite di 20 minuti in quattro movimenti dove è più il nodo tematico che la musica a definirne l’ancora acerbo genere. L’elogio delle autostrade, delle macchine che sfrecciano veloci con i loro testi volutamente idioti (o minimalisti? Siamo dalle parti, ineffabili, di Andy Wharol: “Noi viaggiamo, viaggiamo, viaggiamo sull’autostrada. Poi accendiamo la radio e sentiamo una musichetta che fa: “Noi viaggiamo, viaggiamo sull’autostrada” … “Autobahn” (che spopolò negli States, oltre che in Europa) fece da spartiacque. Da allora il gruppo assunse la fisionomia che li portò ai capolavori senza tempo di “The Man Machine” e “Computer world”, di cui non si contano più le cover (dai Depeche Mode agli U2, dai Coldplay alle improbabili e invero virtuose versioni salsa e bachata di Senor Coconut, da Madonna a Kylie Minogue).

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Fu il successivo “Trans Europe Espress”, capolavoro di minimalismo decadente, a stabilirne, nel 1974, il ruolo di primaria ed unica rilevanza, punto di riferimento per Bowie, Eno e un’intera generazione di artisti. E alla campionatura del riff di Autobahn si deve “la nascita dell’hip hop” con Afrika Bambaataa e il suo “Planet Rock”. Ma veniamo a “Radioactivity”. Un disco alieno, oppure per ossimoro quanto mai terreno: è il pianeta delle onde radio, le infinite suggestioni del “suono riprodotto” dal realismo estremo dei radiogiornali alle sequenze di pure onde elettriche, tra meravigliose melodie e improbabili, e bellissime, canzoni “natalizie” (l’ironica, e infinitamente seducente, “Ohm sweet Ohm”) a riversare il pianeta di inaudite, nuove espressioni che avrebbero poi fatto la storia del pop elettronico. Ecco, dopo cinquant’anni, “Radioactivity” è un disco che si apre alle nuove generazioni con stimoli sorprendentemente inediti, uno scrigno da cui si continua a estrarre novità. Assolutamente imperdibile per chiunque voglia farsi un’idea della musica dei 50 anni da lì a venire. Fino ad oggi, fino al 2025, in cui i nostri, con una cura del suono maniacale, continuano imperterriti (certo, dei membri originali ne è rimasto uno solo) a stupire: collegandosi live con l’ISS e suonando in perfetto sincrono con lo spazio; inventando (in collaborazione con il MOMA e la TATE) vertiginosi 3D in cui il pubblico dei millennial, proprio come accadeva agli albori del cinema con i fratelli Lumière, scappa dalle sedie perché “colpito” da numeri virtuali che dal palco si scagliano sugli spettatori. E per questo cinquantenario basta così. Ne riparleremo, tra dieci anni…

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