C’è una scena, in uno dei quattro episodi de Il cono d’ombra di Pablo Trincia, in cui non si vede sangue, non si vede violenza. Ma si sente tutto. Il freddo. Il vuoto. La rabbia. E quella forma di dolore che non urla, ma si siede accanto e non se ne va più. Questa non è solo la storia di Denis Bergamini. È la storia di ciò che resta dopo che l’amore si è travestito da veleno. Ed è la storia di come il giornalismo, se fatto con rispetto e profondità, può diventare un atto di giustizia. O almeno di memoria.
Siamo nel 1989. Denis ha 27 anni, gioca nel Cosenza, è bello come quei ragazzi di cui le madri si fidano e le fidanzate si innamorano. Ma un giorno finisce sotto un camion sulla statale 106, in Calabria. Il caso viene archiviato in fretta. Si parla di suicidio. Lui che si sarebbe buttato sotto un Tir per una delusione d’amore. Davvero?
A distanza di 36 anni, Il cono d’ombra – in onda su Sky TG24, Sky Crime, Sky Documentaries, Sky Sport, NOW e disponibile anche on demand – riapre quella morte come si riapre una ferita mal cucita. Con rispetto, ma senza risparmiare nulla. Lo fa Pablo Trincia, che non si limita a raccontare: scava. Fa domande. Va nei luoghi. Legge le carte. Ascolta le voci. Ma soprattutto, guarda negli occhi quel dolore che nessuno ha voluto guardare per troppo tempo.
La docuserie non è solo un’indagine. È un’autopsia dell’anima di un Paese che ha preferito archiviare piuttosto che comprendere. Che ha lasciato da soli i genitori di Denis. Che ha voltato lo sguardo mentre qualcuno riscriveva i fatti. E soprattutto, è la radiografia di un amore tossico. Sì, perché Denis non muore solo. Muore mentre al suo fianco c’è Isabella Internò, la fidanzata. La ragazza che, secondo le ricostruzioni, stava con lui nell’auto poco prima che il suo corpo finisse sotto le ruote di un camion. La ragazza che avrebbe raccontato versioni sempre diverse, incongruenti. Che per la giustizia è stata l’ultima a vederlo vivo, ma per anni è rimasta ai margini dell’inchiesta. Eppure, era lì.
Era lì quando lui per lasciarla le scrisse una lettera. Era lì mentre lui, sensibile e mite, cercava una via d’uscita. E forse, non l’ha trovata. È questo che ci mostra la serie. Non con il clamore dei titoli, ma con il pudore di chi sa che i morti non si toccano. Si ascoltano. Si restituiscono. La scena del crimine viene ricostruita con modelli in scala, audio originali, video dell’epoca. E c’è un dettaglio, tremendo nella sua precisione, che commuove più di qualsiasi fiction: il luogo esatto in cui Denis è morto non esiste più. Ma un vecchio girato Rai del giorno dopo lo aveva filmato da ogni angolazione. E Trincia lo usa per ricostruirlo, per restituirgli una dignità, uno spazio, un'ultima verità.
Nel frattempo, Denis vive. Vive nelle lettere scritte con calligrafia ordinata. Nei video con gli amici. Nei racconti dei compagni di squadra che ancora si commuovono. Vive in una città – Cosenza – che non lo ha mai dimenticato. Che lo porta negli striscioni allo stadio e nei cuori. E poi c’è la famiglia. La sorella Donata, i genitori che non hanno mai smesso di cercare risposte. Non giustizia, che quella si è sempre fatta aspettare. Risposte. Quelle che danno pace, se non altro. E qui sta la grandezza di questa serie: non cerca l’effetto. Cerca il senso.
Lo ricorda anche Pablo Trincia, ideatore della serie: “Questo è ancora un caso aperto. Ma noi non lavoriamo per la giustizia. Lavoriamo per la verità narrata. Ci siamo documentati in modo indipendente. Abbiamo letto le carte, ascoltato le voci. E ci siamo fatti un’idea. Non sappiamo come andrà a finire, ma non è questo il punto. Il nostro lavoro è raccontare”. C’è qualcosa di sacro nel silenzio con cui la serie lascia che siano le crepe a parlare. Non pretende di spiegare. Si limita a esporre. E nel farlo, ci costringe a guardare ciò che abbiamo imparato a ignorare: che il male, a volte, ha il volto dell’amore.

