Il dato da cui partire è il confronto tra i libri venduti pro capite in Italia rispetto ai principali paesi europei. Ebbene: in Italia se ne vendono 4,5 a persona. In Germania 12, nel Regno Unito 10, in Francia 9. Numeri impietosi. C’entra, ovviamente, il tema economico, i nostri stipendi scandalosamente bassi rispetto a nazioni con cui solo fino a pochi anni fa eravamo alla pari. Ma se bastasse questo, per spiegare un dato che fotografa quanto sia profonda la crisi del nostro Paese, allora non si spiegherebbe come mai la Spagna di libri pro capite ne vende 7: se da noi si vendessero tanti libri quanti se ne vendono la, vorrebbe dire venderne circa 150 milioni in più. Pensate alle ricadute in termini culturali, sociali e ovviamente occupazionali. Davanti a questi dati si possono avere due reazioni: la prima, quella che va di moda nei circolini letterari a trazione turbo-progressista, è dare la colpa a quello che una volta si chiamava “l’italiano medio” e che oggi si chiama “maschio bianco cisgender”, accusarlo di essere cafone, ignorante, schiavo della TV (anche se la TV è in crisi nera pure quella, ma sia mai che la realtà entri di sfuggita nei discorsi dei circolini). La seconda è rendersi conto di come l’editoria sia una vera e propria cartina di tornasole, un punto privilegiato da cui osservare il funzionamento e l’effetto di quelle dinamiche arci-italiane che hanno decretato la sconfitta del nostro Paese in settori economici pure più redditizi. Prendi, per esempio, il premio Strega.

Nella valle di lacrime descritta poc’anzi, esisteva l’eccezione di un premio che per tanti anni funzionava come viagra sulle vendite dei libri. Per distinguersi dall’odiatissimo italiano medio, abituato a leggere in spiaggia la Gazzetta dello Sport sognando “tricolore e coppe varie”, il ceto medio riflessivo si faceva vedere sulla sdraio con un tomo impreziosito dalla sacra fascetta “Finalista al Premio Strega”, per ribadire così, non potendolo più fare nel segreto dell’IBAN, la propria superiorità antropologica. Non il massimo della vita, ma i libri si vendevano, e tanto bastava. E cosa è stato fatto, negli anni, per sfruttare al meglio questa anomalia? Si è cercato di puntare sul confronto, dunque sulla qualità, nel contesto di una competizione genuina, in cui venissero promossi i libri più amati o quelli con più potenziale? Tutto il contrario. Esattamente come la grande impresa soffocava, negli stessi anni, a causa della mancanza di competitività per effetto del consociativismo all’italiana, il premio Strega si trasformava via via in un teatrino immorale, completamente slegato da qualunque merito, con gli scrittori ridotti a pupi manovrati da una schiera di pupari, che decidevano di far vincere ora questo ora quell’altro, a seconda delle convenienze. All’inizio con qualche remora, poi in modo sempre più sfacciato, abbiamo assistito alla dissoluzione di qualunque credibilità per arrivare al più italiano dei paradossi: il premio trasformato nell’equivalente di un concorso pubblico dove si sa già chi ha vinto dall’inizio. E il bello è che questo processo non si è svolto, perlomeno, nel buio delle segrete stanze, ma in pieno giorno, sotto la luce dei comunicati stampa e dei lanci d’agenzia. In tempo reale si sapeva quale pupo godesse dell’appoggio di quale puparo, come fosse cosa assolutamente normale, come se fosse sbagliato stupirsene.

Il climax si è verificato l’anno scorso, quando la sottoscritta, con un’esperimento-provocazione, ha provato a leggere tutti i libri proposti per il premio, scoprendo l’acqua calda, ovvero il fatto che tale operazione era materialmente impossibile. E a quel punto lo stesso Direttore della Fondazione responsabile del premio, non solo non ha fatto finta di nulla - utilizzando almeno la famosa “logica del cono d’ombra” con cui l’establishment italiano, dalla Democrazia Cristiana in poi, ha sempre i silenziato i disturbatori - ma ha avuto l’ardire di rispondere pubblicamente, sostenendo che per valutare un libro non serve mica leggerlo. Una frase, e una spudoratezza, che significava l’aver oltrepassato di parecchio il punto di non ritorno. E infatti il risultato si è visto quest’anno, con il Premio Strega derubricato a rumore di sottofondo: pochissimi ne hanno parlato, nessuno o quasi sapeva, e tantomeno ha letto, i libri finiti in cinquina. La festa è finita, insomma. Missione compiuta: lettori e appassionati se ne sono finalmente andati, al banchetto siete rimasti solo voi, con i vostri amici e con gli amici degli amici. Finalmente, potete sbafarvi le ultime briciole in pace. Il brutto è che il conto di un Paese dove l’unica cultura che vive d’ottima salute è quella amichettista-mafiosa, lo paghiamo tutti. Ogni santo giorno.
