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Nel flusso psichedelico di Flavio Giurato, tra 'Marco Polo' e un urlo di libertà. E sulla Roma decadente, i discografici e il fratello Luca ai tempi di Aldo Moro…

  • di Emiliano Raffo Emiliano Raffo

5 ottobre 2025

Nel flusso psichedelico di Flavio Giurato, tra 'Marco Polo' e un urlo di libertà. E sulla Roma decadente, i discografici e il fratello Luca ai tempi di Aldo Moro…
“Marco Polo”, terzo disco di Flavio Giurato, torna nei negozi il 10 ottobre dopo circa quarant’anni. “All’epoca lo feci ascoltare al nuovo direttore artistico della CGD, uno che veniva dai surgelati, inchiodandolo alla sedia. Quella sessione sancì la mia cacciata dalle major”. La nostra intervista

di Emiliano Raffo Emiliano Raffo

Flavio Giurato, al di là di una dimensione artistica invidiabile, è un conversatore sublime. O meglio, è artista anche quando dialoga. Di una levità e un’educazione assolute. Una di quelle persone che, se mai dovesse mandarti a quel paese, te lo comunicherebbe con un tale savoir faire che ci metteresti una trentina di secondi per capire esattamente dove ti ha mandato. Perché sottolineare tutto questo adesso, in apertura? Perché Flavio Giurato non conosce i giri di parole. Questa intervista è quindi assolutamente candida, figlia di una tranquillità che il cantautore romano si è costruito in anni di esplorazioni umane e artistiche, anni di “esercizi di libertà”. Questi esercizi, volessimo datarne l’origine, si sono concretizzati per la prima volta nel lontano 1984, anno di pubblicazione di “Marco Polo”, il terzo album di Giurato. Sì, Giurato, fratello dell’indimenticabile Luca, giornalista e conduttore televisivo tra i più riconoscibili degli ultimi 40 anni di tv. Quaranta, gli stessi trascorsi dalla pubblicazione di quel disco oggi ristampato in vinile (l’uscita è prevista per il 10 ottobre). Un personaggio a tutto tondo, Flavio Giurato. Giocatore e allenatore di baseball, ha visto la propria carriera stroncata da un grave infortunio. Caviglia fratturata. “Quando ho smesso di giocare mi sono messo a fare i dischi”, scherza. “Quando ho allenato mettevo i giocatori in cerchio, a fare le mosse di Tai Chi. Il contatto con l’Oriente è fondamentale”. La nostra intervista all’artista italiano che più si è avvicinato a comporre il proprio, personalissimo, “Astral weeks”.

“Marco Polo” è un disco semplicemente “importante”. Lo è stato per il pubblico che lo ha ascoltato e lo è, ancora oggi, per te. Perché?

Sì, per me è stato importantissimo. Perché è stato frutto di una lavorazione di tredici giorni, tra Roma, Milano e Londra. Come un’unica lunga performance. All’epoca registravo agli studi della CGD, meravigliosi, di via Quintiliano a Roma, oggi abbandonati. O forse occupati… Beh, ci cresce l’erba dentro, per farti capire. Ci passavo notte e giorno e durante le registrazioni di quell’album ci trascorsi dieci giorni (gli altri tre li spesi appunto tra Milano e Londra). A un certo punto chiesi un piano gran coda Steinway aperto, ci appendemmo sopra delle magliette che sembravano delle bandiere. Era una situazione quasi ipnotica, quella che vissi in quel breve periodo di totale estasi creativa. Uscivo dallo studio solo per andare al bagno. Correndo. Al batterista, un genovese bravissimo, feci togliere tutti i piatti chiedendogli di usare solo le pelli. Il suono doveva essere scuro. E poi la musica che stavamo suonando non era in minima parte scritta: né appunti, né spartiti, né leggii. C’eravamo solo noi, i microfoni, gli strumenti. In tv, nello stesso periodo, programmavano il “Marco Polo” di Giuliano Montaldo, che fu una grande fonte d’ispirazione. Ogni domenica, la nuova puntata. Una volta finita, mi chiudevo in camera a comporre al pianoforte.

Tredici giorni fulminanti e creativi. Un blitz.

È una mezza truffa, dai. E poi in questa ristampa di “Marco Polo” c’è dentro un’altra soddisfazione.Di quei giorni mi rimane un’idea di musica che mi ha poi accompagnato per tutto il resto della mia vita: una musica non scritta. Per questo “Marco Polo” è stato il mio disco decisivo. E sono felicissimo che sia stato egregiamente ristampato. La grammatura massima possibile, l’ottima stampa. Edizioni che hanno un senso, perché l’album fu registrato in analogico. Per questo ha senso ristamparlo in vinile. Che senso ha invece, oggi, costruire un disco tutto con un computer o un laptop e poi farlo uscire in vinile?

Quale?

Beh, che oggi, a quarant’anni di distanza, “Marco Polo” lo ristampano ancora, mentre magari chi era nei primi dieci in classifica oggi non se lo fila più nessuno.

“Marco Polo” però ha rappresentato anche un bivio per la tua carriera. La CGD pretendeva un successo commerciale che, in parte, non è arrivato.

La CGD si aspettava un successo anche dal precedente “Il tuffatore”, di cui si era comunque parlato tanto. La discografia, all’epoca, riteneva che la soglia necessaria per ritenersi moderatamente soddisfatti fosse di ventimila copie vendute, quindi sorrido un po’, oggi, quando in tv, ai Tim Music Awards di Verona, sento strillare che tizio o caio hanno “spaccato” perché hanno fatto sei miliardi di ascolti in streaming. Dalle ventimila copie in su, l’industria prestava attenzione e investiva. Sotto quel limite, le cose non andavano bene. Io non sono mai andato bene, ecco.

Marco Polo 01
L'album di Flavio Giurato, "Marco Polo" (1984), tornerà disponibile in vinile il 10 ottobre

Da “Marco Polo” in avanti com’è cambiata la tua carriera?

La CGD voleva i provini del disco successivo, ma io i provini non li facevo. Andavo in studio e registravo, stop. Feci ascoltare “Marco Polo” al nuovo direttore artistico, uno che veniva dal settore surgelati, inchiodandolo alla sedia. Quella sessione – immagino un’autentica sofferenza, per lui – sancì la mia cacciata dalle major. Fu un dolore. Pensare ai luoghi dove avevamo registrato, a tutti i musicisti coinvolti. Pensare che oggi non ci sono più, quegli studi. Ma Roma ama sbarazzarsi della sua storia recente, come i mitici studi della RCA. Luoghi che andavano culturalmente preservati. Tutto smantellato, invece. Studi in cui ha suonato Rubinstein, dove hanno registrato le opere. Tutto alle ortiche.

Dipingi una Roma decadente. Ti appartiene ancora questa città?

Tra me e Roma c’è un fiume, l’Aniene, che sorge dove c’è acqua buonissima. Sono figlio del barrio, quartiere Monte Sacro, di cui parlo nel pezzo che ho scritto su Papa Francesco (”In mezzo al cammino”). Confino con il Tufello, altra zona popolare di Roma. Il barrio è il luogo dove le battute circolano ancora liberamente, nel sangue della gente e nell’aria che tutti respiriamo. La Roma capitale invece mi appartiene poco.

Torniamo a “Marco Polo”: credi che quel disco definisca appieno la tua idea di cantautorato e arte?

È soprattutto il mio modo di fare cultura. “Marco Polo” è l’apertura all’Oriente. L’occidentale che guarda a Oriente. Un discorso molto attuale. Al tempo c’era la Cina delle biciclette e dei sacchi della spazzatura che volavano per aria, che è un po’ la Cina che ancora sento. Al di là dei tempi, è comunque la narrazione del viaggio dell’uomo verso Oriente.

Un album “avanti”, per usare un’espressione colpevolmente vaga.

Credo che in pochi lavorassero come me, in Italia, in quel momento. Tutto scritto, prodotto e arrangiato da me. Una cosa che, tanto per cambiare, non facilitò il mio rapporto con un’industria che fatalmente viveva (e vive) di tante diverse professioni e competenze, e senza alcun dubbio preferiva chi si faceva aiutare da questo o da quello. Così dopo “Marco Polo”, vista l’aria che tirava, ho cambiato lavoro.

A cosa ti sei dedicato?

Paolo Giaccio mi chiamò a Raiuno. Ho fatto il regista televisivo per dieci anni. Lavoravo sulle “esterne”, ciò che in tv più somiglia al cinema. Ho lavorato anche con Pippo Baudo. Anni divertentissimi. Chiuso quel capitolo, aprii le mie edizioni musicali (Entry) e ho pubblicato tre album.

La tv, nella tua carriera, era già comparsa quando entrasti negli studi di “Mr. Fantasy” di Carlo Massarini, vero?

La dominavo quella trasmissione. Lì sì che andavo bene (sorride sornione, nda).

Quanto è diverso il Flavio Giurato di quei tempi da quello di oggi?

Il tempo mi ha consumato, adesso ho la sciatica e per stare in forma mi devo allenare. Ma sono ancora in forma per suonare. Ho concluso un percorso chitarristico importante, pensa che io vengo dalle trascrizioni di Mozart di quando ero ragazzino. Oggi sono completamente libero, non tornerei mai a Mozart fatto con la chitarra. Tra poco, per Panico Concerti, uscirà il mio nuovo album, “Il console generale”, atteso per novembre. Un disco fatto in casa, alla “Marco Polo”. Sei pezzi, uno è lungo dodici minuti (“Caravan”). Un altro brano è stato scritto da un detenuto del carcere minorile di Bari.

La ricchezza artistica di “Marco Polo” non ti ha mai abbandonato. Cosa ascoltavi in quegli anni?

Il mio disco feticcio per “Il tuffatore” era “Madman across the water” di Elton John. L’esordio fu ispirato da “Wings” di Michel Colombier, mentre “Marco Polo”, come dicevo prima, subì il profondo fascino dello sceneggiato di Montaldo.

Se ti va, un ricordo di tuo fratello Luca.

Eh, è una bella fregatura che non ci sia più. Pensa che comodità avere un giornalista in famiglia. Io ho cominciato facendo il facchino, trasportando gli strumenti per Gepy di Gepy & Gepy. Ma sto divagando. Dicevo, era una comodità avere Luca vicino. Alzavo il telefono e mi dava le notizie in anteprima. Lui era stato in trincea, lo andavo a trovare in radio e appeso al muro, incorniciato, c’era il suo articolo della Stampa sul ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nella Renault 4.

Che rapporto avevate?

Era il cinema a unirci. Fin da quando eravamo ragazzini comunicavamo con il lessico delle pellicole che più amavamo. Ricordo conversazioni scherzose, criptate e un po’ folli, imitando i dialoghi di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” con Gian Maria Volonté.

Gli piaceva la tua musica?

Credo di sì, del resto mi sono formato sui suoi ascolti. Jacques Brel me lo ha fatto conoscere lui. Ancora di più i libri, quelli che leggevo da ragazzino li aveva comprati lui per primo. È stato il mio primo influencer.

Luca Giurato 01
Luca Giurato, storico giornalista Rai e fratello di Flavio, con Eleonora Daniele Foto Ansa
https://mowmag.com/?nl=1

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