C’è qualcosa di profondamente inquietante in Mission: Impossible – The Final Reckoning, ottavo e ultimo episodio della saga. E non è l’intelligenza artificiale che minaccia il mondo, né le solite acrobazie al limite della morte. È Tom Cruise. È lì, perfetto, scolpito, impermeabile al tempo e alla logica. Corre come nel ’96, salta come nel 2000, recita come nel 2011. Ma una domanda risuona: è ancora un attore o è diventato un ologramma che si autoproduce in eterno? Cruise non interpreta più Ethan Hunt. Lo è. Come se il personaggio avesse inghiottito l’attore. Non mostra emozioni, è una maschera fissata a un destino: salvare il mondo, ancora e ancora. E ancora. Questa volta, la minaccia è l’Entità, un’intelligenza artificiale senziente capace di infiltrarsi nei sistemi digitali globali, manipolare informazioni e riscrivere la realtà. Per fermarla, Ethan Hunt deve recuperare due chiavi misteriose, in grado di controllare l’accesso al cuore del sistema. Insieme alla sua squadra, Hunt affronta un nuovo nemico, Gabriel (Esai Morales), un’ombra del passato che riemerge con violenza e che, come l’Entità, incarna l’invisibile e l’incontrollabile. Il film, diretto da Christopher McQuarrie e presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes 2025, si sviluppa come una corsa contro il tempo, tra acrobazie in volo e immersioni estreme. Ma più della trama, conta il come: ogni scena è un’ossessione visiva, un test fisico, una dichiarazione d’intenti.

Girato tra alcune delle location più spettacolari del mondo, The Final Reckoning è anche un viaggio cinematografico attraverso continenti e atmosfere. A Londra e nel Lake District, nel nord dell’Inghilterra, si consumano inseguimenti aerei e pedinamenti a piedi tra paesaggi che sembrano usciti da un poema epico. In Norvegia, le riprese tra i fiordi di Aurland e le isole Svalbard offrono uno sfondo tanto gelido quanto metafisico, mentre in Sudafrica, tra le coste di Port Edward e le pareti rocciose dei Monti Drakensberg, si alternano imboscate e duelli mozzafiato. E poi c’è l’Italia. In particolare, la Puglia. Alcune delle sequenze più imponenti del film sono state girate a bordo della portaerei USS George H.W. Bush, ormeggiata al largo della costa pugliese. Non un set ricostruito, ma una nave vera, reale, utilizzata per dare peso e verità a uno dei confronti chiave del film. Cruise è stato visto decollare da Bari a bordo di un elicottero diretto alla nave: la fiction che si impasta con la cronaca, come sempre accade quando lui entra in scena. E Cruise, l’ultimo samurai analogico, combatte come sa: con stunt veri, fisici, disperati. Si è immerso con una tuta da 57 chili in una scena subacquea al limite dell’umano, costretto a respirare il proprio fiato in un ambiente iperpressurizzato. Poi, si è aggrappato a un biplano in volo a 8.000 piedi, affrontando raffiche da 225 km/h, perdendo i sensi più volte. È tutto vero. Troppo vero. Ma proprio per questo, quasi sacro. Guardare Tom Cruise è diventato un rito collettivo. Non è più solo spettacolo: è un’esperienza ipnotica. In un’epoca in cui gli attori si raccontano fragili, vulnerabili, lui si tiene aggrappato all’aereo. Letteralmente. Il film? Barocco, gonfio, esagerato. Ma non importa. È un mausoleo in movimento, un tributo vivente a un’idea di cinema che non esiste più. Cruise è come una Vhs che si rifiuta di smagnetizzarsi. È forse l’unico attore rimasto a credere che il cinema d’azione richieda rischio, fiato corto, paura negli occhi. E non lo fa per nostalgia. Lo fa per credibilità. Come scrive Reason Magazine: “Tom Cruise riesce dove i governi falliscono: nel fare quello che serve, invece di aspettare che lo faccia qualcun altro”.

La trama è pretestuosa, ma per nulla banale. L’Entità non ha volto, né corpo, né motivazioni. È puro algoritmo: un’intelligenza artificiale capace di riscrivere la realtà. È tutto ciò che ci inquieta oggi. Non solo perché non possiamo controllarla. Ma perché non possiamo nemmeno capirla. The Final Reckoning è un film sulla guerra culturale che stiamo vivendo: da una parte il dominio dell’invisibile, dall’altra l’essere umano che vuole ancora toccare, rischiare, esistere. Non è il capitolo più brillante della saga, ma è il più necessario. Non parla solo di action e di tecnologia. Parla di cinema. Di virilità. Di resistenza. Perché Cruise non può smettere di correre, saltare, sfidare la morte. Questa è forse la vera essenza del film: un omaggio a un’idea di cinema che non esiste più. Un cinema fatto di rischio vero senza effetti speciali. Cruise oggi non è solo un attore: è diventato un simbolo di resistenza fisica. Sceglie la realtà. E la mette in scena con il proprio corpo: “Viviamo e moriamo nell’ombra, per proteggere chi ci sta a cuore e chi non conosceremo mai”. È una battuta del film. Ma è anche una dichiarazione d’intenti. Perché Cruise non è più un attore: è l’ultimo stuntman del mondo. O forse il primo cyborg del cinema, programmato per una sola cosa: resistere. Ma ora che l’ultimo capitolo è andato in scena, la vera domanda è: i fan sono davvero pronti a dirgli addio? O, come l’Entità del film, anche Tom Cruise troverà un modo per non sparire mai.
