Che Until Dawn sarebbe diventato un film era quasi inevitabile. Dopo il successo travolgente della serie Hbo di The Last of Us, anch'essa tratta da un'esclusiva Sony, era chiaro che Sony Pictures avrebbe voluto puntare ancora di più sul suo catalogo videoludico per conquistare anche il pubblico cinematografico. E allora perché non riprendere uno dei giochi più amati e cinematografici degli ultimi anni? Un horror teen ispirato agli slasher anni Ottanta e Novanta, con scelte morali, finali multipli e una forte componente narrativa: insomma, un gioco che sembrava già un film. A dirigere Until Dawn (2025) è stato chiamato David F. Sandberg, regista che conosciamo per Lights Out, Shazam! e Annabelle: Creation. Un nome che porta con sé una certa esperienza nel genere horror, anche se il suo stile si è sempre mosso tra l’horror mainstream e un certo gusto per l’intrattenimento pop. In questo film fa anche un cameo (una foto, nulla di troppo invadente), e probabilmente si è divertito parecchio. Eppure, per quanto la produzione fosse promettente e il materiale di partenza avesse potenziale, il risultato finale è un’opera che, pur riuscendo ogni tanto a intrattenere, tradisce in più punti lo spirito del gioco originale e perde di vista ciò che lo rendeva speciale. Chi conosce il videogioco del 2014 ricorderà un cast notevole per un prodotto del genere: Peter Stormare nei panni dello psichiatra inquietante, Hayden Panettiere, e persino un giovanissimo Rami Malek prima dell’Oscar. Il gioco era costruito come un film interattivo: ogni scelta aveva un peso, ogni morte era definitiva, e l’atmosfera era curata al punto da sembrare una pellicola horror vera e propria. Ma il film del 2025, pur richiamandosi a quel mondo, prende una direzione completamente diversa. Della struttura a scelte multiple non resta nulla. Della tensione psicologica nemmeno. E, soprattutto, viene abbandonata una delle idee più forti del gioco: la morte come punto di non ritorno. La trama del film si costruisce su un’idea che a prima vista può sembrare interessante: un gruppo di ragazzi si ritrova in una baita immersa in un fitto bosco, circondata da una tempesta incessante. Fulmini, tuoni, vento, pioggia ovunque... tranne che attorno alla casa. Un dettaglio visivamente intrigante, che sembra suggerire un’anomalia spazio-temporale o una qualche distorsione della realtà, ma che – come molte altre cose nel film – non viene mai davvero spiegato o sfruttato a fondo. Proprio in quella notte sospesa, i protagonisti scoprono di essere intrappolati in un loop temporale in cui muoiono e si risvegliano continuamente, ripetendo la stessa sequenza di eventi con piccole variazioni sempre più strane.

Questo elemento dei loop, chiaramente ispirato a dinamiche da videogioco, viene però usato in modo piuttosto meccanico, senza costruzione emotiva o tensione vera. Il problema, infatti, è che Until Dawn, il gioco, non era un loop. Era una linea retta: se morivi, morivi. Punto. Non c’erano seconde possibilità, non c’era “game over” e restart. Ogni decisione aveva conseguenze irreversibili. Il film inizialmente sembra rinunciare del tutto a questo aspetto cruciale, dando l’idea che la morte non abbia peso. Solo più avanti, prova timidamente a reintrodurre un certo senso di tensione psicologica, inserendo regole che limitano i loop e rendono alcune morti (forse) definitive. Ma il modo in cui queste regole vengono rivelate è frammentario e forzato, come se si cercasse in corsa di recuperare un’intensità che fin dall’inizio era stata sacrificata. Il risultato è che, pur tentando di creare urgenza e pericolo, la costruzione narrativa non regge, e la sensazione di ripetitività resta dominante. Lo spettatore, anche quando viene informato che “questa volta potrebbe essere l’ultima”, non riesce più a crederci fino in fondo. Questo porta il film a una struttura in cui molte dinamiche si ripetono senza grandi variazioni, come se si fosse in un videogioco mal scritto. Le morti si accumulano, gli indizi sembrano sparsi a caso, e soprattutto molte scelte narrative appaiono arbitrarie, scollegate da una logica interna. È un problema che si riflette anche nei personaggi: agiscono spesso in modo inspiegabile, prendono decisioni che servono solo a mandare avanti la trama, ma non rivelano nulla di loro stessi. Il legame emotivo si spezza, e il pubblico finisce per non interessarsi davvero a chi vive o muore, anche perché tanto potrebbe essere tutto resettato nella scena successiva. Detto questo, non voglio sembrare ingiusto. Il film non è completamente da buttare. Nonostante i suoi difetti, ci sono momenti in cui riesce a essere godibile. Ci sono alcune trovate visive interessanti, piccoli lampi di creatività che fanno pensare: "Ecco, se tutto il film fosse stato così...". In particolare, ho apprezzato molto una parte girata in stile found footage verso la metà del film: quel segmento, più grezzo, più diretto, più sporco, riesce a generare una tensione autentica, e avrebbe potuto rappresentare una strada più interessante da seguire per tutta la pellicola. Se il film avesse scelto con coraggio un linguaggio visivo coerente e originale, invece di cercare di tenere insieme troppe cose, avrebbe sicuramente lasciato un segno più forte. E poi c’è un altro aspetto da lodare: gli effetti pratici. Until Dawn utilizza pochissima Cgi, preferendo effetti realizzati sul set, con trucco e protesi e. In un’epoca in cui l’horror spesso si rifugia nel digitale, vedere un film che sceglie la via fisica fa piacere. È una lezione che film come Terrifier hanno già insegnato: l’horror sporco, fatto a mano, ha un impatto molto più forte. E Sandberg, almeno in questo, ha capito la lezione. Le creature (perché sì, ce ne sono, anche se non vi svelo nulla) hanno un design interessante e un aspetto credibile proprio perché tangibile. Quando il film si affida a queste soluzioni, guadagna in atmosfera e credibilità.
Il cast fa il suo dovere, ma senza brillare. Nessuna interpretazione memorabile, ma nemmeno disastri. Peter Stormare, presente anche qui ma in un ruolo diverso da quello del gioco, sembra divertirsi, ma è poco utilizzato. Manca quel senso di coralità che aveva il gioco, quella dinamica da teen horror alla Scream o So cosa hai fatto. E alla fine, non ti affezioni a nessuno. Ed è un peccato, perché Until Dawn, come gioco, era riuscito a farti importare di ogni singolo personaggio, a modo suo. Qui invece restano sagome, archetipi, reazioni prevedibili. Nessuno evolve davvero. Nessuno sorprende.
In conclusione, Until Dawn (2025) è un film che cerca di essere due cose: un omaggio al videogioco e un horror autonomo, ma finisce per fallire in entrambi i compiti. Come adattamento, tradisce quasi tutto ciò che rendeva unico il gioco. Come film, intrattiene a tratti ma non riesce mai davvero a decollare. Non è un disastro, ma nemmeno qualcosa che consiglieresti caldamente. È uno di quei film che guardi, magari ti fai prendere per qualche scena ben fatta, ma che dimentichi abbastanza in fretta. E se siete curiosi di vedere come un horror possa trattare i loop temporali in modo più intelligente e divertente, vi consiglio caldamente di recuperare Auguri per la tua morte di Christopher B. Landon. Quello sì, un film che riesce a mescolare horror e meccaniche da loop con una scrittura solida e un tono coerente. Alla fine dei conti, Until Dawn resta un’occasione sprecata, ma non un’esperienza completamente negativa. Solo... un po’ inutile. E in un genere come l’horror, dove anche un film imperfetto può lasciare il segno se ha cuore e idee, dispiace vedere un progetto con tanto potenziale ridursi a un esercizio di stile senza vera anima.
