Alla fine, Netflix ha rilasciato Building The Band. Girato la scorsa estate, il talent show canterino nasce per trovare la nuova band che forse, chissà, scalerà le classifiche di Spotify del futuro. Attenzione: band intesa come boyband e girlband, sulla scia di quei gruppi composti da bellocci dall'ugola d'oro che hanno affollato il mercato musicale tra gli anni Novanta e i primi Duemila, per poi chiudersi con la pausa degli One Direction nel 2015 e resuscitare in Asia, dove gli idol del kpop hanno diffuso la passione per la Corea nel mondo. In un panorama contemporaneo di solisti, Netflix cerca la band vecchio stampo: e lo fa con concorrenti che per età, l'epoca d'oro delle boyband e delle girlband nemmeno l'hanno vissuta. Per lo show, Netflix non ha badato a spese, tant'è che a condurlo c'è niente di meno che AJ McLean dei BackStreet Boys e come giudici nomi che, davvero, hanno scalato le classifiche quando la musica vendeva dischi veri: Nicole Scherzinger delle Pussicat Dolls, che è anche mentore dei gruppi, Kelly Rowland delle Destiny's Child e Liam Payne degli One Direction. Proprio Liam Payne è stato il nodo intorno a cui ha ruotato suo malgrado il talent: perché purtroppo, lo scorso ottobre, il cantante è precipitato dal terzo piano di un hotel di Buenos Aires, lasciando un'intera generazione di ex adolescenti a piangerne la perdita e uno show pronto all'esordio, bloccato. Ora, con il consenso della famiglia, Building The Band è stato rilasciato. I primi quattro episodi sono stati caricati in piattaforma lo scorso 9 luglio, altri tre la settimana successiva, i tre finali il prossimo mercoledì 23 luglio. È solo nel settimo episodio, l'ultimo del secondo blocco, che compare Payne. Aveva mosso i primi passi in un talent show, e proprio qui, in un contesto simile, appare per l’ultima volta.

Potremmo stare qui a discutere sul perché e il per come una piattaforma nata per allargare l'offerta generalista di film e serie televisive, abbia prodotto l'ennesimo talent show, mettendoci pure sopra una bella manciata di spiccioli. Tuttavia non avrebbe senso: se produce brutture come Il Fabbricante di Lacrime, Inganno o il più recente Too Hot To Handle, perché mai prendersela con un programma tutto sommato accattivante, dove dei ragazzi talentuosi cantano già da professionisti navigati. Questo il meccanismo: chiusi ciascuno in una cabina, i 50 concorrenti devono ascoltare le esibizioni degli altri e decidere con chi formare un gruppo senza mai vederli. Non si tratta solo di giudicare le voci, ma di capire quali possano armonizzarsi con la propria e quali possano sposare il proprio progetto musicale; partono dunque le chiamate e le conversazioni per conoscersi. C'è spazio solo per sei band: chi non crea la propria formazione in tempo, è fuori. È solo dopo aver formato i gruppi, durante una prima esibizione al buio, che i componenti di ogni band possono svelarsi. Da lì comincia la classica trafila da talent show: la convivenza, le prove, le difficoltà di trovare un equilibrio tra sensibilità diverse, le esibizioni davanti alla giuria.
Building the Band rovescia i talent show visti finora: riprende il concetto base di The Voice, cioè giudicare solo in base alla voce, ma molla gli impicci ai concorrenti. Se hai bagliato a scegliere compagni, o non hai trovato nessuno a cui accompagnarti, peggio per te. A differenza di altri talent infatti, qui non c'è il coach o il discografico che tira i fili dall'alto; così come non c'è nemmeno quell' “x factor” che può sopperire con la presenza scenica alle stecche. Manca perciò anche quel “pretty privilege” di cui gli One Direction degli esordi sono esempio: i cinque avevano del potenziale, ma fino a che il potenziale non si fosse rivelato, Payne avrebbe dovuto metterci la voce per trainare il gruppo dei ragazzini carini. A proposito di Liam Payne: puntuale nelle osservazioni, garbato ma sempre centrato, è davvero straniante vederlo come giudice sapendo com'è andata a finire. Ancora di più quando uno dei ragazzi lo ringrazia ricordando di averlo visto in concerto al Madison Square Garden da bambino: è lì, racconta, che ha desiderato di far parte di una boyband. Ecco allora da dove vengono questi giovani, al massimo 27-28 anni, che non hanno vissuto l'epoca d'oro delle band ma le sognano: sono gli ultimi figli degli One Direction, i fan che all'epoca delle band erano ancora bambini. Per quanto riguarda Netflix invece, la scelta è chiara: i gruppi assicurano più dinamiche dei solisti, oltre a un sacco di retorica sull'aver trovato una “famiglia” -sì, dicono proprio così- con cui condividere la passione per la musica. Intanto, spulciando i profili dei protagonisti, l'impressione è che delle sei band formate, diversi cantanti stiano proseguendo per conto proprio: esigenze di comunicazione per non spoilerare, oppure esperimento già fallito? A Netflix tanto interessano gli spettatori, mica la musica. E comunque, si vinceva pure mezzo milione di dollari.
