Per capire qualcosa di Horizon, la nuova colossale saga cinematografica di Kevin Costner in quattro parti, bisogna capire da dover arriva Kevin Costner, produttore regista e attore, una vera icona del cinema che fu. Un cinema al passato, perché di quell’idea di cinema che lui, a settant’anni, oggi ripropone sullo schermo, non c’è traccia altrove. A partire dalla portata del film. Innanzitutto: si tratta di un’idea che Costner ha tentato di piazzare dal 1988, sono dunque passati quasi cinquant’anni prima che potesse essere realizzata. È un colossal, che ha i tratti del colossal novecentesco però, quindi non sono tre ore perché fa figo, ma tre ore perché devono essere tre ore, non meno. È l’idea di un cinema che non deve solo far riflettere, ma che deve prima di tutto intrattenere, come i voluminosi romanzi di un tempo - da Tom Jones a Il Circolo Pickwick. Altro particolare, Horizon esce a vent’anni esatti da Wyatt Earp, un altro colossal sempre con Kevin Costner per protagonista. Quando Costner, ingaggiato per Tombstone, sempre ispirato alla vita di Wyatt Earp, capì che la produzione voleva concentrarsi su altri personaggi oltre al protagonista, scelse di farsi il suo film, interamente incentrato su di sé. L’accoglienza fu incredibilmente negativa e la critica assolutamente insensibile, come se si fossero tutti messi d’accordo per dire a Costner: stai al tuo posto. Lui non c’è stato e dopo due decenni ha ottenuto la sua vendetta (con dieci minuti di standing ovation a Cannes).


Poi la qualità del film. Horizon ha i colori, la fotografia e le musiche di un film dichiaratamente fuorimoda, una pellicola prodotta come gesto d’amore nei confronti del cinema stesso. È anche un film apparentemente senza ritmo, perché recupera, dalla grande tradizione del Western, quella cadenza a grana fina, dilatata nel tempo, piccoli nodi lungo un sottile filo di cotone, rare sbavature della trama di un vestito, avvallamenti. In altre parole, il film si sviluppa come opera omnicomprensiva e come visione d’insieme, in grado di alimentarsi proprio della quantità di tempo investita nel vederlo. Così, Kevin Costner, che sceglie di raccontare quindici anni a cavallo della Guerra civile americana, rende omaggio a una tradizione che sta sparendo, portato l’espansione a ovest, con tutte le sue contraddizioni, nel mondo moderno, non solo quello delle locomotive, ma quello dell’intelligenza artificiale. Il risultato? Un’opera inattuale, tragica, di puro godimento, la cui cifra stilistica risale indietro nel tempo: cavalcate di notte, cieli nuvolosi, musica di fiati, la lotta violentissima tra pellerossa e cowboy.
