La prima cosa che pensi all’inizio è: riuscirò ad abituarmi ai nuovi volti, agli attori, adulti, che hanno preso il posto di chi per tre stagioni ha sostenuto un dramma corale tanto potente e intricato? Nell’ultima stagione de L’amica geniale non vedremo più Gaia Girace e Margherita Mazzucco, due prodigi della recitazione italiana, alla loro prima esperienza di attrici proprio con questa serie, così complessa, così alta. Passano pochi minuti, la scena in un albergo, il senso di dipendenza di Elena Greco con Nino (Alba Rohrwacher e Fabrizio Gifuni), la madre di lei (Anna Rita Vitolo) che, salita da Napoli per andare a casa di Elena e Pietro (Pier Giorgio Bellocchio), sceglie semplicemente di regalarci una delle scene più intense della storia recente del cinema italiano. A voi sembra eccessivo, ma L’amica geniale è semplicemente un capolavoro. La voce fuori campo di Rohrwacher che legge le pagine del libro di Elena Ferrante (considerato dal New York Times il miglior romanzo del secolo) sono una lenta coreografia di concetti e sentimenti, un gioco di ombre che riescono a rendere ogni personaggio intollerabile e, allo stesso tempo, necessario. È una serie che in effetti non semplifica nulla. Nessuno, i genitori di Pietro, Elena stessa, Nino, sono mai davvero solamente degli antagonisti, i cattivi della storia. Non puoi odiarli né apprezzarli compiutamente.
Elena Greco, come accaduto nelle prime stagioni, ti indispone e ti attrae, ha quella seduzione fragile, quella fragilità che scopre l’emancipazione; e allo stesso tempo è irregolare, tende a dissipare, a non tenere niente tranne le ossessioni. È, in effetti, “un’intelligenza senza tradizione”, come verranno definite lei e Nino, signori nessuno in un mondo che impone a ciascuno un ruolo. Elena è anche una custode di fantasmi in vita, di figure che, in qualche modo, pare l’abbiano traumatizzata. Su tutti proprio Lila, interpretata stavolta da Irene Maiorino. È lei l’amica geniale, o Elena, in fondo convinta che sarebbe stata lei, con un po’ di studio in più, a essere il cigno nero del rione. Lila che resta appena un nome di due sillabe, un affetto che Elena ha la forza di rimandare con una formula dalla cadenza lapidaria: non ora. Perché anche Elena è “Lenù” ma a volte, sulle copertine dei libri, tra gli amici intellettuali, con la suocera, torna a essere un nome per esteso, una seconda persona, più complessa della povera amica intrappolata nelle sue origini. Alba Rohrwacher riesce ad alimentare quel fuoco che ha sempre consumato Lenù, la sua sindrome di Stoccolma nei confronti della vita. E Laura Bispuri, a cui è affidata la regia dopo Saverio Costanzo, Alice Rohrwacher e Daniele Luchetti, ha scelto di mantenersi fedele a una poetica letteraria e intransigente, quella che solo i grandi capolavori hanno. Forse si dovranno fare delle scelte, scegliere da che parte stare, ma, come spesso accade nei libri prima ancora che oltre la cinepresa, la vita è più difficile di così. A volte, semplicemente, non puoi scegliere.