È proprio vero quanto scrivono sul New York Times (e come si ricorda in quarta di copertina): “Più di chiunque altro, Murakami Haruki ha inventato la letteratura del XXI secolo”. Murakami, sempre tra i favoriti per il Nobel per i lettori (le scelte degli accademici non si scoprono solo dopo cinquant’anni), ha raccolto l’eredità del Novecento dandole una levità, una leggerezza, che la letteratura rischia sempre di perdere. Dall’allegorismo vuoto kafkiano al realismo magico, con un po’ di Beatles, Murakami riesce ancora a porsi come alternativa a quella letteratura che, per sentirsi impegnata, crede di dover essere necessariamente impegnativa. Con La città e le sue incerte mura (Einaudi, 2024), invece, Murakami recupera un vecchio racconto mai incluso in raccolta, e che tuttavia aveva ispirato uno dei libri più belli dello scrittore, La fine del mondo e il paese delle meraviglie, un gioco di specchi tra due realtà, entrambe, a dire il vero, granulari, come se uno dovesse addentrarvisi tastando, chiudendo nel pugno la polpa della natura stessa, spostandola alla destra o alla sinistra del proprio corpo, e così avanzare. Paese delle meraviglie che ritroviamo, con gli stessi colori da studio gibli (unicorni dal manto dorato sferzato dal vento, come una risma di pagine dalla bordatura brillante), anche in questo libro, dove un ragazzo di diciassette, innamorato di una sedicenne misteriosa che gli racconta di una città lontana, cinta da altissime mura, in cui proprio lui dovrà diventare Lettore dei sogni, scorderà per lungo tempo un destino abbozzato, che è come il destino, di solito, ti si presenta davanti, mai definito, eppure incontrovertibile. E ricordandosene da adulto con tutto il suo corpo, tutto il suo istinto, tanto da spostarsi in un piccolo paese di campagna vicino Fukushima.
Murakami, famoso corridore e fondista, ci ha abituati a questa maratona oltre lo schermo della realtà, mantenendo fede a un principio di semplicità ed eleganza stilistica che permette alla storia di espandersi con chiarezza, facendo emergere un’altra caratteristica fondamentale del lavoro di Murakami: l’onestà. Si è sicuri, quando si legge Murakami, che lo scrittore non ti stia ingannando, che sia in buona fede, anzi puro. È raro immaginarselo così, il mentitore per antonomasia (Nietzsche, Umberto Eco: il linguaggio serve per mentire, per dire il vero mi basta indicare le cose). Eppure, Murakami usa la scrittura come un dito che indica, una mano che tasta, degli occhi che guardano. Un registratore di onde, di scricchiolii. È un documentarista del romanzo, un cronista ai limiti del sogno, dove dare le notizie è un esercizio di stupore. Una nuova filosofia chiara, erede dei grandi del Novecento, di cui però si abbandonano nevrosi e depressioni. E non perché non caratterizzino, almeno in parte, il lavoro di Murakami (il senso di inamovibilità di alcuni suoi personaggi in alcuni dei suoi più bei libri, da Nel segno della pecora a L’uccello che girava le viti del mondo), ma perché sono affrontati con profonda umanità ed empatia, senza quel senso di ineluttabilità che, anche in recenti bestseller, smentiscono quanto di fragile ci sia persino in una condizione di difetto e dolore. Tutto, persino la sofferenza e la tristezza, è revocabile. Ne La fine del mondo e il paese delle meraviglie, un ragazzo, poi uomo, si confronta col suo stesso mistero nel modo in cui ogni essere umano potrebbe farlo, senza ragionamenti sfarzosi e inverosimili, senza comportamenti titanici e senza quell’alone disfattista che fa il paio con il narcisismo della scrittura. Murakami ci insegna ancora a scrivere e a leggere per il piacere di farlo, al di là di ogni presunzione, poiché si deve correre a lungo per imparare il ritmo del respiro. Così, si deve correre a lungo per rispettare lo scambio, questo sì necessario, tra materia e sogno.