Ci sono serie che esplodono. Serie che, al momento dell’uscita, diventano subito fenomeni, catalizzatori culturali, trend. The Bear non è stata una di quelle. Era apparsa quasi in sordina su Disney Plus, come uno di quei titoli che sbucano dal nulla e sembrano destinati a sparire nella massa. Ricordo che vidi il volto di Jeremy Allen White: per me, allora, era ancora Lip di Shameless, una delle anime più fragili e intelligenti di quella famiglia disfunzionale americana che, nel suo remake, aveva saputo raccontare l’America dei margini meglio di tante altre serie dichiaratamente sociali. Jeremy spiccava. Lo faceva anche quando lo lasciavano da solo a reggere le ultime stagioni quasi interamente sulle sue spalle. Lo fa anche in The Bear. Poi le cose cambiano. Oggi Jeremy Allen White è un sex symbol, un volto amato, e lo vedremo presto impersonare Bruce Springsteen in un biopic già chiacchierato. Ma quando The Bear è uscita, il mondo non lo stava guardando. Ora sì. E ora siamo arrivati alla stagione quattro. La prima stagione era perfetta. Raccontava il trauma, il lutto, lo stress, non in modo estetizzante, ma crudo, con ritmo serrato e una tensione che poteva ricordare un thriller più che una serie sulla cucina. Eppure parlava anche di cucina. Ma soprattutto parlava di cosa vuol dire vivere nella cucina. E lo dico anche per esperienza personale: è un inferno, è un incubo con i fornelli accesi, è sudore, urla, turni massacranti, notti insonni e frustrazione cronica. The Bear lo mostrava con una sincerità rara. Ma, ancora più di questo, mostrava le persone dietro ai piatti. Carmy, il protagonista, è un ragazzo spezzato. Non ha mai affrontato davvero i suoi traumi, la perdita del fratello, le aspettative, la pressione, la solitudine. Si muove nel ristorante di Chicago che ha ereditato come si muove nella propria testa: cercando l’ordine in un caos costante, pretendendo la perfezione da se stesso e dagli altri, ma senza sapere cosa farsene una volta raggiunta. Il grande pregio di The Bear è sempre stato questo: personaggi scritti benissimo, con psicologie credibili, dolorose, incastrate. Gente che sbaglia, che urla, che implode. E attorno a loro, un cast eccezionale. Un certo punto iniziano ad apparire attori come Bob Odenkirk o Jamie Lee Curtis, in ruoli brevi ma memorabili, che si portano dietro ferite invisibili. Alcuni restano, tornano, diventano parte di quella strana famiglia disfunzionale e caotica che è lo staff del ristorante. E oggi, dopo anni, The Bear è arrivata alla sua quarta stagione. No spoiler, promesso. Ma lo diciamo subito: questa stagione potrebbe, e forse dovrebbe, essere l’ultima. Non perché sia brutta, anzi. Ma perché si respira, finalmente, un’aria di possibile chiusura. Di evoluzione. Come se, dopo tanto rimestare nei traumi e nelle ossessioni, i personaggi iniziassero finalmente a muoversi — magari non fuori dal loop, ma almeno oltre

La stagione è coerente con tutto ciò che The Bear è sempre stata: intensa, iperrealista nel dialogo e nel ritmo, capace di mescolare ansia, affetto, e picchi emotivi in una sceneggiatura sempre pulita. Manca forse, questo sì, l’episodio capolavoro, quel picco che segnava ogni stagione precedente: nella prima c’era l’episodio tutto in piano sequenza, nella seconda c’era il devastante episodio di Natale, un vero pugno nello stomaco che riusciva a far emergere, con rara precisione, il terrore dell’intimità familiare. La quarta stagione non ha un momento di quel livello. Non c’è l’episodio, quello che ti rimane addosso per giorni. Ma c’è un percorso, una scelta narrativa che si avverte come necessaria: tagliare finalmente qualcosa, lasciar andare. In un certo senso, The Bear è sempre stata una serie che parlava di persone incapaci di lasciar andare: un ristorante che doveva cambiare, una vita che doveva ripartire, relazioni che dovevano guarire. E ora, piano piano, questo accade. Ma anche se non si conclude ufficialmente qui, e non è dato sapere se ci sarà o meno una quinta stagione, la sensazione è che questa quarta stagione funzioni perfettamente come finale. Come se tutto avesse finalmente trovato il suo tempo, la sua forma. Forse non c'è bisogno di continuare. Forse The Bear ha già detto tutto. E lo ha detto benissimo.