Se gli amanti dell’indie rock e del britpop non sono nella pelle per la reunion degli Oasis, un pubblico meno internazionale ma non meno affezionato questa settimana ha visto un sogno nel cassetto realizzarsi. Venerdì 30 agosto dopo dodici anni dall’ultimo, è uscito “Dinastia”, il terzo e attesissimo album dei Co’Sang, il gruppo rap formato da ‘Nto e Luchè, che ha segnato la storia dell’Hip Hop partenopeo e nazionale. La riconciliazione dei Co’Sang come quella degli Oasis ora e prima ancora quella dei Club Dogo ha seguito uno schema ormai consolidato, dopo un po’ di movimento sui social tra segui e mi piace, spunta la data del concerto trionfale, seguita a pochi mesi dall’uscita dell’album nuovo (per gli Oasis ancora non ci siamo arrivati). Se c’è chi vede l’accaduto solo con occhi romantici, credendo a un riavvicinamento autentico del gruppo del cuore, molti restano scettici e pronti a dubitare che sia l’ennesima mossa di marketing volta a trarre profitto da un eccesso di domanda di mercato, quella che pagherebbe oro (e ha pagato) pur di rivedere i propri idoli dell’adolescenza tornare insieme.
Non è questo il caso dei Co’Sang, che non hanno mai anteposto il guadagno facile alla passione per la musica e per la cultura Hip Hop, che hanno contribuito a far radicare in Italia costruendo una tradizione che non esisteva. Sono stati loro e altri esponenti del genere, come i Club Dogo e Marracash, a svincolare per primi il rap dalla politica, iniziando a parlare di vita vissuta ed esperienze personali in modo esplicito, ma anche poetico. Erano i tempi di “Gomorra” e loro da abitanti di Marianella, hanno raccontato delle giornate passate tra coprifuoco, spaccio e sparatorie in un’Italia abbandonata a sé stessa, dove imperava solo la legge della strada. Così in “Nun è mai fernut” Nto’ puntualizza che la loro non è un’operazione di marketing ma un bisogno da assecondare per sé stessi. “Credevano ca era nu bluff, n'operazione 'e business (Seh). Luchè, 'sti scieme nn'sanno niente, 'o facimmo pe nuje stesse (Ah-ah)” Ed è per loro stessi che si erano separati, nel giorno di San Valentino del 2012, rompendo il cuore ai fan con un post su Facebook (“14 febbraio 2012 N'impero che è caduto, ce lasciaje cu ll'uocchie lucide”), in cui annunciavano lo scioglimento del gruppo per divergenze nelle visioni artistiche, successivamente espresse individualmente nei percorsi da solisti e ora ricondivise con una maturità nuova in “Dinastia”.
L’album è tutto una riflessione sul tempo a partire dal titolo, che ribadisce chiaramente la consapevolezza di essere dei capostipiti di un genere e di rappresentare in qualche modo la dinastia di una scena florida, che vede in Geolier il rappresentante di maggior successo, giustamente coinvolto nel progetto nella traccia d’amore “Perdere ‘a capa”. Tra le altre collaborazioni ci sono Liberato, che, come Geolier, è uno degli eredi direttamente designati dai Co’Sang per una questione di prossimità geografica e culturale e i già citati Club Dogo e Marracash, con cui si dividono il merito di aver aperto un varco nel mercato musicale italiano per una musica che prima non aveva spazio né visibilità. Nto’ e Luchè insieme hanno passato l’esame del tempo (“Mo che amm scunfitt l'esam ro tiemp" cantano in “Dinastia”), dimostrando di essere capaci di produrre dei classici, affidandosi alla cura e alla dedizione per l’arte. La loro è una lezione che va in controtendenza al modus operandi attuale, improntato sulla velocità e la superficialità di canzoni prodotte da intelligenze artificiali e consumate nel tempo di una storia Instagram. Per creare una canzone che non subisce il passare del tempo bisogna spenderne tanto per farla, come se tutto quello che gli sacrifichi prima si trasformasse in un successo duraturo poi. In un mondo dove vince l’hype, l’unica vera arma è la verità, come quella che Luca e Antonio hanno deciso di portare avanti come Co’Sang, letteralmente “col sangue”. “Ind a nu munn arò venc l'hype nun c può fermà. Pcchè usamm a verità com a n'arm”.