È tornata la Milano più plumbea, la Milano periferica dei palazzoni grigi, delle piazzette scure e dei giardinetti dove il sole tramonta presto e talvolta non sorge affatto. È tornato, a sprazzi, il miglior Club Dogo. Un ritorno, a distanza di 10 anni da quell’ultimo disco che sottolineava una penosa evidenza (“Non siamo più quelli di mi fist”; grazie al caz*o, ce n’eravamo accorti), che snocciola pochi ma chiarissimi concetti: i king sono tornati, voi che “mischiavate lo sciroppo e intanto l’hip hop è morto” (semicit. da “C’era una volta in Italia”) fatevi in là. Secondo: la vita è di una solitudine infinita anche se cash, polveri e donne sono al centro di una stanzetta collocata in qualche attico da cui si ammira un avveniristico skyline. Anzi, forse è proprio questo il problema. I privé, a una certa ora della vita, chiudono. E se poi riaprono la magia del party è svanita in una nebbia di eccessi più freddi che appaganti. Commentati da una serie di video girati in uno stiloso e distopico bianco e nero dalla gang diretta da Fabrizio Conte, gli undici brani di “Club Dogo” (35 minuti di musica e via andare) escono a gennaio – mese in cui l’hip hop mainstream, negli ultimi anni, ha fatto ottimi affari; “Madreperla” di Guè è giusto di un anno fa – e funzionano sia per caricare il popolo del Dogo in vista delle 10 date al Mediolanum Forum di Milano fra marzo e aprile, sia come disco “in sé”.
“La musica che ho amato oramai è una festa in maschera”
La manata epica di “C’era una volta Italia” promette un disco forse diverso, ma quel pezzo – come anche “Malafede”, “Tu non sei lei” e “Indelebili” – vale da sola il prezzo del biglietto. Di sola andata, verrebbe da credere, poiché è difficile capire se questo album possa aprire un mini-ciclo. Che poi, al momento, questo non dovrebbe nemmeno essere un cruccio. Il Dogo ringhia, i feat non sono determinanti (Sfera Ebbasta, Elodie; spicca solo Marracash) perché il centro della scena è solo per Guè (ispiratissimo), Jake La Furia (stavolta mezzo passo indietro rispetto al Guercio, ma sempre clinico) e Don Joe (chapeau per aver campionato la Nada di “Sei mio” in apertura di “Malafede”). Come dicono nella canzone: “I capi sono tornati a casa”. La sorpresa, forse, è proprio Joe, che ha sparato fuori undici basi tostissime. Bravissimo ad aggirare la tentazione di trappate di terza mano che lo avrebbero ben poco identificato, spinge su bassi densissimi senza sovraccaricare il sound di effetti-bigiotteria buoni per vecchi arcade games. Bentornato. E benvenuto a questo “testamento senza eredi” (da “Malafede”) in cui la visione del Dogo è un pendolo che oscilla tra due estremi non troppo distanti fra loro: l’inevitabile “come eravamo”, da una parte, l’altrettanto inevitabile “come caz*o ci siamo ridotti” dall’altra. “Rimo da quando i rapper vestivano da rapper” punge Gué ne “La mafia del boom bap”, come ad evocare – spedendola dritta nelle budella di un Dogofiero con la testa che oscilla – un’epoca in cui l’hip hop, versione street, era ancora abbarbicato ai muri di una cultura ben codificata e non ancora liquida e sin troppo contaminata. “La musica che ho amato oramai è una festa in maschera”, rappa Jake sempre in “Malafede”. I Club Dogo si sono sempre divertiti, hanno sempre sbocciato. Sono gli idoli degli zanza, ma l’hip hop – alla bisogna – l’hanno sempre schizzato fuori come cobra sputatori.
Il Dogo adulto di “Indelebili”
C’è un Dogo adulto nascosto sotto le luci opache del nuovo mondo senza identità, se non quella del Mercato globalizzato. C’è un Dogo adulto che schiva il dissing, che cerca di tracciare lo spirito della sua gente. C’è un Dogo adulto che ricorda e medita. Che dipinge “odio su tela” (Jake), che sottolinea la territorialità di rime sempre fiere, bosseggianti ma non vuote (il flow non è della Madonna, “ma della Madonnina”). “King of the jungle”, grazie a Joe più reggae che reggaeton, non è una vetta. “Frate”, con la parola che dà il titolo al pezzo ripetuta ad nauseam, stanca presto. Ma sono le rare pause di un disco che trasuda orgoglio “roots” e stradaiolo, un omaggio alle vecchie tute di felpa che si aggiravano per i video del Dogo quando il Dogo mordeva perché c’erano di mezzo quindici anni in meno, o giù di lì, e tutto avveniva entro i confini di una scena non ancora così teen-friendly. Tutto tende a dissolversi. Non conta quanti dischi vendi, quanto streaming macini, quanta memoria lasci in eredità. Il tuo mondo, prima o poi, diventa sfondo di un nuovo mondo che ti tocca riconoscere anche se avevi finalmente imparato e assorbito le regole di quello precedente. “Tu non sei lei”, nera come la pece, viaggia su una base allucinante di Don Joe e filtra gocce di nichilismo relazionale da assumere con assoluta consapevolezza. Questo è il Dogo che ripensa, a tutti i suoi incontri, i suoi match fra le lenzuola. “Indelebili”, a chiudere, è invece il momento in cui tutta la struttura di “Club Dogo” si cristallizza in un saluto non definitivo ma decisamente ben definito. C’è una prospettiva adulta, in gioco. C’è quel nuovo mondo da osservare (“artisti senza talento, ricchi senza sbattimento”) e dal quale si è osservati. Sopra basi mai timide, focalizzate sui fat beats, Gué e Jake salutano dandoci appuntamento alle feste di primavera al Forum. Prima, però, le tenebre su Milano.