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American Fiction porta al cinema lo show business di oggi. E non è un bel vedere: come nella musica

  • di Michele Monina Michele Monina

3 marzo 2024

American Fiction porta al cinema lo show business di oggi. E non è un bel vedere: come nella musica
American Fiction, candidato agli Oscar (probabilmente senza possibilità di vincere nonostante cinque nomination), è un film illuminante. Racconta la storia di Thelonious Monk Ellison, afroamericano, scrittore colto di libri senza successo, che di colpo, stanco e frustrato, decide di giocare scrivendo un romanzo in stile blaxploitation, tutto droghe e pistole, incontrando un successo incredibile, ma per il suo alter ego letterario. Una perfetta rappresentazione del mondo dell’intrattenimento, sia quello mainstream che quello alto, oggi. Un film che parla di editoria e di stereotipi culturali abusati, ma parla anche di tanto altro: e il mondo della musica è praticamente identico

di Michele Monina Michele Monina

Anni fa, tanti anni fa, ho visto un film che mi ha lasciato un retrogusto amaro in bocca. Un film minore di Pupi Avati, titolo Sposi. In realtà, scopro ora, quando è uscito facevo ancora le superiori e nella vita pensavo avrei fatto il fisico, o al più il musicista, era un film a episodi, uno dei quali, il primo, girato da Pupi Avati, l’anno di uscita è il 1987, santo Google. La trama di questo primo episodio, protagonisti Jerry Calà, sì, era il periodo in cui Pupi Avati si piccava di lanciare a carriera seria attori che di serio fino a quel momento avevano fatto poco, da Diego Abatantuono a Carlo Dellepiane a, appunto, Jerry Calà, e Delia Boccardo, la trama di questo primo episodio racconta di come Luca, presentatore televisivo in difficoltà di trovare un programma, decida di seguire i suggerimenti dei suoi collaboratori e inscenare un matrimonio col solo scopo di finire sui giornali di gossip e quindi tornare alla ribalta. È il 1987, ripeto. La scelta della futura sposa cade su Assunta, che sta cercando lavoro come segretaria, quindi una ragazza comune che è stata però al centro dell’attenzione pubblica per aver subito uno stupro. Quando l’ho visto, era probabilmente il 1988, esistevano ancora i cinema di seconda visione che proiettavano film già di qualche tempo prima, con un biglietto più economico di quelli in prima, che tempi!, quando l’ho visto sono rimasto sconcertato per il cinismo della storia raccontata, una finta storia d’amore creata ad hoc per il pubblico, roba che ai tempi mi sembrava assurda, arso com’ero dal sacro fuoco della gioventù. Jerry Cala, che fino a quel momento era più che altro quello dei Gatti di Vicolo Niracoli e di imperdibili pellicole quali Vado a vivere da solo, Sapore di mare e Vacanze di Natale, appariva per una volta spregevole, e anche a questo non eravamo ancora abituati, poveri scemi che associavamo i personaggi interpretati a chi li interpretava.

Avanti veloce, oggi, marzo 2024.

Scrivo per lavoro ormai da un numero sufficientemente alto di anni. Esattamente dieci anni dopo l’uscita di quel film, il 1997, pubblico libri e collaboro con magazine e quotidiani, dall’anno successivo mi sono cominciato a specializzare in musica, iniziando a essere un critico musicale. Il mondo dello spettacolo, quindi, è diventato il mio ambiente di lavoro, anche più di quello editoriale, perché a parte qualche anno passato in Mondadori, ho sempre rifuggito le redazioni, praticando lo smart working da che quella parola era al massimo un concetto nella mente di qualche testone in California, in genere dopo essere stata concepita prima da William Gibson e Bruce Sterling. Conosco e ho conosciuto, negli anni, centinaia, migliaia di artisti, con alcuni dei quali ho avuto rapporti fugaci, con altri più stretti, professionali, e con altri ancora, neanche pochi, un rapporto che posso chiamare di amicizia, di quel tipo di amicizia che si instaura, tra adulti, tra gente che si conosce sul luogo del lavoro. Di situazioni come quella raccontata in Sposi, nel primo episodio di cui vi ho appena raccontato, me ne sono capitate sotto il naso alcune. Non lo sapete, anche se magari vi è capitato di pensarlo, anche senza lavorare nel settore e anche senza magari aver visto quel film, ma anche storie notissime di cronaca rosa, così un tempo si chiamava il gossip, rientrano a buon diritto in questo tipo di “affari”. Si chiama marketing, applicato ai sentimenti, certo, ma più che altro alla credulità di chi segue il mondo dello spettacolo con l’ammirazione verso chi è famoso, ce l’ha fatta, più che verso chi ha un talento e quindi è famoso perché quel talento gli ha permesso di fare cose eccezionali, straordinarie. Volessi dare una lettura ancora più completa della contemporaneità, ma figuriamoci se questo è un pezzo che ambisce a dare una lettura completa della contemporaneità, dovrei dire di come, a un certo punto, mentre ero già parte di questo sistema, sistema nel quale ho sempre ricoperto, per scelta, attitudine e, perché no, proprio per talento, il ruolo dell’outsider, del cane sciolto (il sistema prevede ne esistano e facciano parte dello show, mica sono ancora arso da quel fuoco lì, attenzione), comunque, volessi dare una lettura ancora più completa della contemporaneità, dovrei almeno fare cenno a come tutto il mondo dello spettacolo sia stato sconvolto da due fenomeni centrali, i reality/talent, da una parte, i social media, dall’altra, veicoli per accelerare l’ascesa alla fama, qui andrebbe aperto dibattito sulla differenza tra fama e successo, e anche, giocoforza, per bruciare le stelle effimere.

Avanti veloce, dicevo, oggi, marzo 2024. Ho appena visto un film, un altro film, illuminante. L’ho visto con gli occhi che ho oggi, cioè occhi che necessitano occhiali leggeri, se no vedo sfocato, ma anche occhi metaforici, quelli di chi col tempo è diventato ahilui cinico, per dire, ora sta parlando di sé in terza persona, pensa di saperla lunga, e più che altro non riesce più a fare qualcosa, anche guardare un film, senza pensare poi a come raccontarlo. Questa cosa merita una piccola, ennesima, deviazione sul tema principale. È storia antica, che ripeto come quei vecchi che finiscono per raccontare sempre di quando erano giovani e facevano questo e quello, sono in effetti in una fascia di età che un tempo avremmo chiamato anziana, conosco gente che è andata in pensione ben prima dei miei cinquantaquattro anni, è storia antica, quindi, ma quando Ivano Fossati, ormai nel 2012, si è ritirato, adducendo come motivazione la sua volontà ferrea di “andare a passeggiare al mare”, ho sussultato. Ho sussultato non solo perché Ivano Fossati è uno dei miei punti di riferimento assoluti in fatto di musica contemporanea, ma anche perché ha poi spiegato quella frase, buttata lì a Fazio, che ovviamente non poteva capire, è sampdoriano, come la sua vita fino a quel momento era stata un continuo vivere esperienze, anche quotidiane, pensando a come infilarle dentro una canzone, come in uno stato di schiavitù. Conosco bene quello stato mentale, vivere una situazione, o anche solo vederla, e pensare subito a come raccontarla e dove raccontarla. E capisco, quindi, la voglia di viverla o vederla e basta. Pur sentendo tremendamente la mancanza delle sue canzoni, ma questo è un passaggio davvero personale e irrilevante ai fini di quanto sto scrivendo, ho molto apprezzato il non essere tornato sui propri passi di Fossati, spero che si goda le sue passeggiate al mare.

Avanti veloce, dicevo, oggi, marzo 2024. Ho appena visto un film, un altro film, illuminante. L’ho visto con gli occhi che ho oggi, cioè occhi che necessitano occhiali leggeri, se no vedo sfocato, ma anche occhi metaforici, quelli di chi col tempo è diventato ahilui cinico, per dire, ora sta parlando di sé in terza persona, pensa di saperla lunga, e più che altro non riesce più a fare qualcosa, anche guardare un film, senza pensare poi a come raccontarlo. Il film si intitola American Fiction, lo trovate su Prime Video, è appena uscito e ha per protagonista un gigantesco Jeffrey Wright, già ammirato in tanti film, in tv nel futuribile Westworld - Dove tutto è concesso. La regia è invece di Cord Jefferson. Il film ha cinque candidature agli Oscar, come Miglior Film, Miglior Attore Protagonista, Miglior Attore non Protagonista, Migliore Sceneggiatura non originale, e Migliore Colonna Sonora. Tutte più che meritate, il che non implica che in effetti diventeranno Oscar. Da noi il film non è passato dalle sale, ma dopo il Covid non è più da stupirsi più di tanto. Segue spoiler.

Jeffrey Wright in “American Fiction”
Jeffrey Wright in “American Fiction”

Il film racconta la storia di Thelonious Monk Ellison, afroamericano, scrittore colto di libri senza successo, che di colpo, stanco e frustrato, decide di giocare scrivendo un romanzo in stile blaxploitation, tutto droghe e pistole, incontrando un successo incredibile. Successo incredibile che però, qui la parte interessante, arriva non a lui, uno che ha il nome di un grande jazzista e il cognome di uno dei più importanti autori afroamericani, Ralph Ellison, autore mica a caso di quell’Uomo invisibile che in qualche modo è al centro di questo racconto, ma al suo alter ego letterario, Starr E. Leigh, che ricorda onomatopiecamente un altro archetipo della letteratura americana, Stagger Lee, assassino. L’alter ego di Monk, infatti, è un afroamericano latitante, in fuga dall’Fbi. Non intendo star qui a raccontarvi tutta la trama, vi ho in realtà appena infarinato il tutto, ora sta a voi andarvelo a vedere, ma il successo che il romanzo otterrà, e tutte le dinamiche che si insceneranno, sono una perfetta fotografia plastica del mondo dell’intrattenimento, sia quello mainstream che quello alto, oggi. Il tutto raccontato con raffinatezza, e, siamo a Hollywood, grande sapienza dei mezzi a disposizione. Certo, anche con un certo malinconico cinismo, siamo sempre lì, l’idea che il successo, nello specifico i tanti soldi che il romanzo in questione muoverà, necessari alla vita malconcia di Monk, arrivino da qualcosa nata come forma quasi violenta di reazione a un sistema che si pensa totalmente sbagliato, quasi a volerlo far detonare da dentro, finendo invece per continuare a alimentarne la fiamma tossica. Il film in questione, e qui si aprirebbe un universo parallelo, è tratto da un romanzo del 2001 di Percival Everett, Erasure, romanzo uscito in Italia nel 2007 per i tipi di Instar, ma presto uscito dalle librerie, oggi introvabile (non è uscito nelle sale il film, non è reperibile in libreria da tempo il libro da cui il film è tratto, quantomeno siamo un paese culturalmente arretrato ma coerente). Percival Everett, per altro, è autore afroamericano di romanzi assai alti, uno dei quali pubblicati in Italia dalla elogiabile Nutrimenti, si intitola “Percival Everett di Virgil Russell”, il nome dell’autore in bella vista, libro dentro il quale la scrittura (e la metascrittura) è protagonista quanto i protagonisti in carne e ossa, sempre che esistano protagonisti in carne e ossa dentro le pagine di un libro, fatte di carta, inchiostro e colla.

American Fiction, il film, e immagino il libro, che spero presto approdi nelle nostre librerie, magari trainato proprio dal film, parla di editoria, certo, e di stereotipi culturali, abusati, ma parla anche di tanto altro, esattamente come quell’episodio di Sposi ci mostra l’abisso nel quale sta sprofondando il mondo dello spettacolo, qui si parla fugacemente anche di cinema, sempre in chiave metanarrativa, il mondo della musica è praticamente identico. Per intendersi, lo si potrebbe serenamente applicare a Franco Arminio come a Orietta Berti, con tutto quello che ci sta nel mezzo. Compreso colui che ha scritto queste parole, che detto tra noi, sarei io, passato dal dialogare sulla letteratura con Edoardo Sanguineti e Nanni Balestrini a ritrovarsi a intervistare Il Tre o Fred De Palma, i capelli lunghi, gli occhialoni rosa, l’aria da duro. Dico, Il Tre e Fred De Palma, simpatici e tutto, eh, ma parliamone. Il mondo va così, o per fare nostre le parole degli Assalti Frontali d’antan di Terra di nessuno, volevamo fare la rivoluzione, per il momento faccio movimento per il movimento.

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Il cast di “American Fiction”
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