Il 2023 è stato il primo anno dal 2015, da quando cioè Disney si è trasformata nel Leviatano titolare di alcune tra le principali proprietà intellettuali dello zeitgeist contemporaneo (Marvel, Star Wars, i Simpson, l’elenco è lungo), in cui la multinazionale di Topolino ha perso il primato al box office, venendo scavalcata negli incassi dalla Universal, 4,9 miliardi di dollari contro 4,8. Questa sconfitta più nominale che sostanziale rappresenta comunque una pessima notizia: il capitalismo è come la cellula del cancro, l’unico modo che ha per sopravvivere è crescere, e se una società quotata in borsa smette di crescere può anche produrre da sola una ricchezza pari a quella del Pil del Belgio che la sostanza non cambia, l’investimento non è più redditizio in prospettiva, investitori e hedge funds possono sparire da un momento all’altro. Per questo, il Ceo di Disney Bob Iger è stato messo sotto accusa dai grandi azionisti: e la cosa interessante è che invece di rimproverare ad Iger film brutti o operazioni finanziarie sbagliate, nel board Disney contestano al manager l’essersi piegato completamente ai diktat della cultura Woke. Supereroine ultra-femministe, sirenette afroamericane, disquisizioni a tema LGBT in cartoni animati per bambini: quella che per anni sui media mainstream è stata presentata come una svolta culturale inevitabile, simbolo dell’evoluzione del genere umano, nel Cda di Disney, oggi, viene definita una catastrofe, additata a causa unica della sciagura finanziaria che nel 2024 l’azienda dovrà necessariamente scongiurare. “Go Woke, go broke” per dirla con uno slogan. E che ha fatto allora Iger, che qualche anno fa, nel suo libro “The ride of a lifetime” si presentava con orgoglio come una specie di Ayatollah Woke, tutto casa, Cancel culture e pronomi correggiuti? Ha sfidato quegli affaristi senza scrupoli di Trian Parteners, il fondo che detiene tre miliardi di azioni Disney e che chiede la sua testa, autorizzando un Pinocchio gay? Ha affrontato a brutto muso il miliardario Nelson Peltz sventolandogli in faccia il copione di una Cenerentola uomo che si identifica donna e che mette incinto il Principe donna che si identifica uomo? Nulla di tutto questo. Ha ammesso che, effettivamente, Disney “ha perso di vista il suo lavoro che è intrattenere: non deve ruotare tutto attorno ai messaggi”. Insomma: per un decennio abbondante Disney ci ha ammorbato coi messaggi, a cominciare da quelli piazzati all’inizio dei suoi capolavori storici che ci informavano come Peter Pan o Biancaneve fossero veicoli di messaggi “profondamente sbagliati” e poi basta un risultato leggermente al di sotto delle aspettative, per gettare tutto alle ortiche, per ammettere, finalmente, che un cartone animato – come una canzone, un film, o la battuta di un comico – deve essere considerato per quello che è, un mezzo per intrattenere, e non una clava per rieducare il popolo. Lungi dal rappresentare una curiosità legata al mondo dello spettacolo, le parole di Bob Iger hanno, a parere di chi scrive, un’enorme valenza storica. È dal 2008, dallo scoppio della più grande crisi economica dell’era moderna seguita a stretto giro dall’elezione di Obama, che la cultura Woke si è diffusa negli USA e nel mondo a velocità supersonica; e volano di questa espansione sono state proprio le grandi multinazionali tech americane - Disney, Netflix, Meta, Google, eccetera - che hanno sposato in toto la causa Woke, imponendola come unico atteggiamento culturale possibile, censurando, cancellando, umiliando chi non la pensava in quel modo.
Milioni di allocchi pascolando in pausa pranzo sulle praterie di Twitter, hanno allora creduto che l’atteggiamento “inclusivo” di queste aziende - dietro cui ci sono fondi di investimento spietati, guidati da persone che per un risultato economico più alto sarebbero capaci di tutto - non fosse una mossa di marketing finalizzata ad allargare il mercato, un tentativo di “includere”, appunto, categorie di pubblico diverse per massimizzare i profitti; ma hanno realmente creduto si trattasse di una scelta etica, di una prova dell’evoluzione umana nel nome del bene e della tolleranza. In altre parole: convinci il mondo dell’importanza della body positivity, e avrai le influencer in brodo di giuggiole ai tuoi piedi, ma soprattutto avrai moltiplicato i clienti di Victoria’s Secret. Il gioco ha funzionato talmente bene che della Woke se ne sono appropriate anche le forze politiche democratiche del mondo intero, che a guardare bene ne avevano un bisogno disperato. Incapaci di combattere il neoliberismo sul terreno economico, avendo venduto l’anima al diavolo con la dottrina della “terza via” (copyright Tony Blair) attraverso una serie di leggi in tema di lavoro, di detassazione delle rendite finanziarie, di deregolamentazione del diritto bancario scritte sotto dettatura dai rappresentanti del capitale, hanno trovato nel politicamente corretto l’arma di distrazione di massa perfetta per continuare a esistere. Convinci i giovani a prendersela con il fantomatico “patriarcato”: eviterai che ti inseguano con i forconi per aver legalizzato il precariato. Convinci gli afroamericani che avere un Lupin nero è una vittoria: eviterai che si preoccupino del non potersi permettere un’assicurazione sanitaria decente. Convinci le donne che l’emancipazione femminile passa dal dire “direttora” e “sindaca” o dall’avere il cesso in comune con gli uomini con l’asse sporca di pipì: eviterai scendano in piazza per chiedere adeguate misure di sostegno economico. E via dicendo. Una geniale mossa di marketing, insomma, e una straordinaria quanto gratuita macchina di propaganda politica: questa è la cultura Woke, almeno fino al discorso di Iger. È troppo presto per organizzare funerali, ma se davvero i manovratori del sistema si convinceranno che il politicamente corretto nuoce gravemente ai conti, allora l’inversione di rotta sarà rapidissima. Non c’è niente che cambi pelle più velocemente del capitalismo americano: lo abbiamo imparato quando Wall Street smise di finanziare il nazismo dopo averlo foraggiato per anni. Poi bisognerà capire cosa accadrà dopo, quale modello culturale sostituirà quello dominante oggi. Forse si tornerà a respirare pluralismo, libertà, pensiero critico. Ma conoscendo il desiderio di controllo del capitalismo tech moderno, non siamo assolutamente ottimisti.