Devo sciogliere un debito nei confronti di Andrea G. Pinketts ora che sono passati 40 anni dal suo primo romanzo Lazzaro, vieni fuori. E lo faccio in questa occasione con gioia. Ma prima fatemi dire una cosa: quanto ci manca, in questi giorni di polemica letteraria, in questi giorni amichettisti, in questi giorni un po’ Chiara Valerio. Chissà cosa avrebbe detto o fatto. Avrebbe scritto su MOW, questo è sicuro. E Gianmarco Aimi ci avrebbe mandato a fare un reportage gonzo a Più libri più liberi. E noi – supponendo che fossimo un trentenne e un quarantenne (le età non sono dette a caso) – saremmo andati al Caffè della Pace, ci saremmo sbronzati, avremmo controllato di avere tutto il necessario (quadernetto e penna) e saremmo andati a stuprare Leonardo Caffo (Nota per la signora Mirella, mamma di Andrea, se legge: non avremmo mai stuprato nessuno, è solo una provocazione in relazione a un dibattito intellettuale di questi giorni, che non sto qui a spiegarle. È una cosa “gonza”, ossia “non vera”. Si fidi!). È per questo motivo che non posso raccontare aneddoti su Andrea. Non ci siamo visti molte volte, abitavamo lontano. Ci sentivamo spesso al telefono. “Spesso” per quei tempi, quando ancora nei giornali c’erano i dimafonisti. Ma quelle volte in cui capitava di vederci, bé, nessuna seratina è riportabile. Per cui beccatevi il debito letterario.
Ci conoscemmo con una stroncatura. Sì. Stroncai Il conto dell’ultima cena su VivereGiovani, un inserto del quotidiano La Sicilia. Perché lo feci? Perché ero un coglione saccente all’epoca (chi non riconosce di essere stato un coglione saccente, almeno per un’epoca della sua vita, è destinato a diventare “amichettista” per il resto della vita). La stroncatura si basava sui calembour. Non mi piacevano i calembour. Che poi non è neanche vero, mi piacevano, ma ero un tipino dalle letture raffinate all’epoca e ritenevo che – due palle – anche la mia scrittura dovesse essere all’altezza delle mie letture (non fate mai questo sbaglio, scrivete per come siete e piegate le vostre letture a voi stessi). Chiudevo la stroncatura con la frase: “Il conto dell’ultima cena lo pagano quelli che comprano il libro”. Andrea mi telefonò in segreteria di redazione: all’epoca i pezzi non andavano online e suppongo lo abbia letto nella rassegna stampa che Mondadori mandava ai suoi autori. Che bella la Mondadori di quell’epoca! Di lì a poco ci sarei entrato anche io. La Mondadori di Antonio Riccardi e Antonio Franchini (anche se Franchini non mi ha mai voluto bene). La Mondadori del megadirettore generale Gian Arturo Ferrari – grandissimo fan di Andrea - che nell’ufficio teneva un acquario in cui nuotavano gli autori che non facevano rientrare la casa editrice dei meravigliosi anticipi (la responsabile della narrativa di oggi mi correggeva le bozze, e io le bocciavo tutte le correzioni, voleva italianizzarmi il siciliano, in qualche archivio della Mondadori deve esserci ancora il manoscritto di Sicilian Tragedi, sul cui frontespizio scrissi a lettere cubitali “VIVE!”).
Così mi dissero che mi cercava un certo Pinketts. Aveva lasciato il numero di telefono e lo chiamai. “Che cazzo fai un calembour per stroncare i calembour? E poi che cazzo hai contro i calembour?”. E diventammo amici. Così oggi posso dirlo. I calembour di Andrea G. Pinketts sono altissima letteratura, di quella letteratura i cui nomi sono Achille Campanile (“mi spezzo ma non m’impiego”) a Karl Kraus, sentite cosa dice quest’ultimo a proposito del calembour (e dire che Kraus faceva proprio parte della schiera degli autori raffinati che leggevo): “L'arguzia, che lavora con rappresentazioni date e presuppone una terminologia corrente, preferisce la lingua in uso alla lingua giusta, e nulla le è più estraneo dell'aspirazione al purismo. Si tratta di arte del linguaggio. Che una cosa del genere esista viene avvertito da cinque persone su mille. Gli altri vedono una opinione e appesa a essa una battuta di spirito che ci si può mettere comodamente all'occhiello. Non sospettano nulla del mistero della crescita organica. Valutano solo il materiale. A partire dalla rappresentazione più piatta si può raggiungere l'effetto più profondo: davanti allo sguardo del lettore che ho descritto tutto tornerà a essere piatto. La banalità come elemento della forma satirica: un calembour le resta in mano”. Adesso, spero, sono uno dei cinque lettori su mille. Fare restare il lettore con un calembour in mano. Andrea era un… era Il Maestro in questa faccenda!
Non è vero che non ho nulla da raccontare sulla frequentazione con Andrea. Ogni tanto prendeva anche a noi la sbornia triste. E immagino che dopo avere "stuprato" Leonardo Caffo ci saremmo lasciati andare a considerazioni profonde, quelle in cui parlavamo di noi e ogni tanto ci spuntavano le lacrime. Andrea era una matrioska. Era un burbero con dentro un cuore d’oro con dentro un burbero con dentro un cuore d’oro. Il primo burbero era Andrea nei confronti della vita. Metteva una virgola, una pausa, nel suo essere burbero, lasciava uno spiraglio. Se lo scorgevi vedevi un uscio aperto. Passato quell’uscio c’era il cuore d’oro. Andrea era una delle persone più generose che abbia conosciuto (i suoi amici, soprattutto giovani che ha incoraggiato e ai quali ha dato dritte necessarie, lo sanno). Dopo questo cuore d’ore c’era un altro burbero. Era il burbero per cui Andrea G. Pinketts era solo Andrea G. Pinketts, il burbero in cui lui e il suo “personaggio” coincidevano. La vita là fuori, in fondo, gli era qualcosa di estraneo, la frequentava come un palcoscenico. E difendeva la sua vera vita. Che era (ed è) la sua cameretta. E sua madre. Mirella. Il secondo burbero era a difesa di questa vita. La sua vera vita. E non riusciva a immaginare di essere vivo senza sua madre. Come me. Come tutti noi. Era solo in quella vita, serrata con il catenaccio dell’unico vero amore che Andrea G. Pinketts tornava a essere Andrea Giovanni Rodolfo Pinchetti. Un abbraccione!