Ho imparato a nuotare tardi, intorno ai vent’anni. Sapevo già farlo, in realtà, ma come certi asceti rispetto al ses*o e ai piaceri della carne non praticavo. Avevo comunque imparato non troppo presto, credo intorno alla fine delle scuole elementari, pur abitando in una città col mare, Ancona, e pur passando buona parte delle mie giornate estive nelle città col mare dove l'estate inizia decisamente prima, quando finisce la scuola, e termina quando la scuola riprende, ai miei tempi il primo di ottobre. Avevo paura del mare, dell’idea di dover stare da qualche parte senza tenere, metaforicamente o meno, i piedi per terra. La mia esistenza era abbastanza incentrata su una insicurezza che attraversava tutte le fasi della mia vita, avevo saltato il primo anno di asilo, per dire, il tutto credo riconducibile al fatto di aver perso il mio fratello gemello, Francesco, nel momento in cui io venivo alla luce. Era il 1969, l’ecografia non era ancora stata inventata o, se esisteva, non era parte dell’attrezzatura dell’ospedale dove sono nato e dove lui è morto. Un parto gemellare in assenza di ecografia presenta sempre dei rischi, li presenta anche con le ecografie, figuriamoci, lo so perché a mia volta ho avuto due figli gemelli, uno dei quali porta appunto il nome di Francesco, l’altra Chiara, come fossimo a Assisi. Tornando a me, alla pancia di mia madre, il fatto che fossimo gemelli e non un singolo bambino - immagino obeso dato che quando sono nato di otto mesi pesavo sopra i tre chili - mi fa pensare che di Francesco, che tecnicamente nato non è, si poteva intuire la presenza, ma non sapere con certezza. C’erano dei movimenti che lo lasciavano pensare, c’erano anche dei battiti multipli, i nostri cuori, che si percepivano attraverso la pancia, ma per il resto niente, fitto mistero. Poi arrivava il parto e si capiva se eravamo in effetti due, se eravamo dello stesso sesso e di che sesso eravamo, si scopriva se eravamo con tutte le cose a posto, quello che oggi si apprende durante la gravidanza attraverso ecografie e esami vari. Nel nostro caso, il parto ha portato alla mia nascita, e anche alla morte di Francesco, strozzato dal cordone ombelicale. Una tragedia, ovviamente, al punto che per i primi diciott’anni della mia vita il giorno del mio compleanno coincideva anche con l’anniversario di una morte, in realtà la faccenda è proseguita fino al cinquantaquattresimo, solo che fino a diciott’anni la cosa comportava le lacrime di mia madre, il suo trattenere a stento un dolore che posso immaginare sia in effetti grande, immenso. Quando è nata la nostra prima figlia, Lucia, anche lei aveva il cordone ombelicale intorno al collo, motivo per cui io, che ho assistito al parto, non ho potuto tagliarle il cordone, operazione che ha fatto l’ostetrica con un gesto molto veloce. Cosa che ho invece fatto col nostro secondogenito, Tommaso, non coi gemelli, perché a quel parto, avvenuto con taglio cesareo, non ho assistito. Tornando a quel fatto, la morte di mio fratello, da qualche parte dentro una bara bianca al cimitero di Tavernelle di Ancona - io non amo i cimiteri e non sono mai andato a trovarlo - quando sarà il mio turno ho già lasciato detto cosa voglio che accada con le mie spoglie mortali, il mio libro Seppellite il mio cuore sul Monte Conero lo ha detto anche a dei perfetti sconosciuti, tornando quindi al fatto della morte di mio fratello Francesco, ciò ha ovviamente influito sulla mia infanzia, non solo nei giorni del mio compleanno. Credo, ma lo credo ora, rileggendo il mio passato come se fossi andato in terapia, cosa che mi guardo bene dal fare, credo che mia madre sia stata spinta verso un atteggiamento molto protettivo nei miei confronti, come per paura di perdere pure me. Per cui ho passato il mio terzo anno di età in casa, invece che all’asilo, ufficialmente perché io non volevo andare. Ho anche passato la mia prima notte fuori casa, o meglio fuori casa lontano dai miei, all’età di credo quindici anni, e da allora, per altro, non sono praticamente mai tornato sui miei passi. Ho reciso, si dice così, e so che suona alquanto sinistro, il cordone ombelicale che mi legava alla mia famiglia di origine, e mi sono letterariamente imbarcato su un cargo che batteva bandiera liberiana, ma non è di questo che voglio parlare. Di fatto tutte quelle ansie, quelle dovute alla paura di un altro lutto, hanno influito sulla prima parte della mia vita. Ero insicuro, parecchio. Ne ho parlato altre volte, altrove, avevo addirittura paura di uscire di casa, convinto che a un certo punto sarei dovuto andare in bagno, e anche solo al pensiero che ciò potesse accadere, mentre magari non c’era un bagno a disposizione, mi spingeva a andare subito in bagno, tecnicamente credo si chiami colite. La cosa si è risolta di colpo, quando il mio medico mi ha prescritto una colonoscopia, spiegandomi di che si trattava. Parlo della colite, di tubi nel culo, cerco di sdrammatizzare, ma in realtà la colite è passata, questa mia ansia a uscire no, è durata ancora un po’, finché altri eventi e altri lutti mi hanno indotto a liberarmi da quelle fragilità, per prendermi cura di altre fragilità, di chi mi stava accanto, anche a questo serve l’amore. Avevo però tante di quelle paure, ero a letto, per dire, e pensavo che se avessi smesso di respirare sarei morto asfissiato. Al solo pensarci, provateci, smettevo di respirare, e per poter riprendere dove farlo pensandoci, come se il respiro fosse un movimento volontario, come, che so, infilarsi un dito nel naso per togliersi una caccola. Andavo avanti a lungo, finché, credo, svenivo dal sonno. Per questo, anche per questo, credo che aver imparato a nuotare e non averlo mai messo in pratica fosse qualcosa di naturale, per me. Ho fatto un paio di anni nuoto nella piscina del Passetto, proprio quando l’estate doveva ancora cominciare, il terrore di sapere che nell’ultima lezione ci avrebbero gettato, letteralmente, nella piscina grande, quella dove non si toccava a animare le singole lezioni. Ho quindi imparato a nuotare, ma non l’ho mai fatto. Finché non sono andato in vacanza in Grecia, a Rodi, dove l’acqua era troppo alta per fare il bagno rimanendo a riva, dove si tocca, quindi ho fatto di necessità virtù e ho imparato a nuotare di nuovo, a modo mio, quindi, con uno stile orribile a vedersi, immagino, ma tale da permettermi di stare a galla, di fare il bagno al largo, di nuotare, appunto.
La presenza o assenza di mare, per chi è nato in una città di mare, così come la presenza o assenza di un lago, di un fiume, immagino, è qualcosa con cui fare i conti, e come spesso capita, qualcosa di cui ti rendi conto più quando quella presenza diventa una assenza, un po’ come succede in effetti coi lutti, con tutte le debite differenze del caso. Da un punto di vista puramente istintivo direi che è la cosa di Ancona, fatta eccezione per gli affetti, che più mi manca, da che vivo a Milano, anche se ora che abito in un appartamento al settimo piano affacciato per altro sullo skyline della nuova Milano, da un lato, e sulle montagne, dall’altro, mi rendo conto come questo vada assolutamente accompagnato dall’idea di prospettiva, Ancona è una città molto mossa, tra colline e pianure, mentre Milano, su questo fronte è piatta, lineare, senza neanche una salita. Questa faccenda del mare ha quindi segnato romanticamente una parte della mia vita, quella nella quale la vita passava forse più dai libri che dalla realtà. Ho molto amato, e come sarebbe potuto essere altrimenti, i romanzi e i racconti di Hemingway, di Stephenson, di Melville, di Maugham, arrivati dopo essermi letto, quando forse neanche sapevo esattamente cosa fosse la letteratura, tutto Salgari, al punto da aver cominciato, più grande, a collezionare edizioni differenti delle sue opere e di aver poi fatto una sorta di pellegrinaggio, anche questo l’ho già raccontato, a Mompracem, nel Borneo malese. Il mio amore per il mare, in tutti questi casi, era più letterario che reale, mi sembra evidente. Mi rifiutavo di andarmi a fare una nuotata al largo, ma amavo farmi trasportare per mari tempestosi, magari anche nell’ossessiva ricerca di un senso a quella vita, magari anche di una vita altra dentro il corpo di una balena. Mio fratello Marco, del resto, si è iscritto al Nautico per il suo amore per Hemingway, finendo poi a fare non il macchinista ma l’editore, direi che questo tradisce forse una qualche tara genetica della mia famiglia, più che un aspetto vagamente avventuroso del nostro codice genetico. Di fatto, negli anni, mi sono ritrovato spesso a pensare al mare, a volte guardando dentro un cortile, oggi mirando gli alberi che vedo dal balcone, a tratti montagne innevate di bianco. Ho soprattutto iniziando a surfare con le parole, provando a stare sul pelo dell’acqua, pur sapendo che sotto c’è una immensità oscura, che la superficie è superficie sia al largo che a riva, dove si tocca. Solo una faccenda di prospettive. Mi sono visto, il bello di scrivere è che si può decidere che a questo punto facciano irruzione dentro questa pagina duecento elefanti di corsa, citazione di Stefano Benni, il tutto in maniera credibile, cosa che non potrebbe mai accadere nella realtà, figuriamoci se non posso pensarmi come a un giovane Keanu Reeves che prova a star dietro a Patrick Swayze mentre vanno rapinando banche, i volti coperti da maschere di gomma che riproducono le facce dei presidenti degli Stati Uniti. O come un Eddie Vadder che poi sale sul palco e mostra quelle sue tante fragilità soffiando parole dentro un microfono, il surf è surf, sport che ovviamente non ho mai provato a fare, la realtà è assai differente dalla fantasia. Ecco, già il fatto che, parlando di surf, io sia andato a pescare Eddie Vedder, surfista, invece chi la musica al surf l’ha legata per sempre, tipo quel genio assoluto di Brian Wilson e i suoi Beach Boys, credo dia indicazione di come io associ al mare quel tipo di turbamento lì. Intendiamoci, d’estate al mare ci vado per rilassarmi, come tutti, stare all’ombra invece che al sole, tanto divento scuro dopo un minuto, fare bagni, giocare a calcio sui sassi, ma pur amando alla follia le armonie vocali della surf music, è più nelle dolenti litanie rock dei Pearl Jam che preferisco immergermi, appunto, pensando al mare. Immergermi pensando alla superficie, che è poi quello che i surfisti fanno, quando dopo aver dominato un’onda magari anche alta parecchi metri ci si ritrovano sommersi, vedi alla voce surfare, signora mia. Ho parlato di imparare a nuotare, di lutto, di attacchi di panico, di mare e di surf, indicando una modalità di intendere tutto questo come metafora d’altro, goffamente, perché parlare di lutti e di superficie è sempre cosa complicata, anche per chi con le parole ci lavora. Chi assolutamente non si è dimostrata goffa nel parlare di lutto surfando con la voce e le parole su un abisso, è Angelina Mango, giovane artista uscita in primavera da Amici e che durante l’estate ha già dimostrato tutto il suo valore con quel gioiellino spensierato che risponde al titolo di Ci pensiamo domani, successo meritato poi replicato con l’altrettanto spensierata Che t’o dico a fa’. Un talento non solo vocale incredibile, quello di Angelina Mango, che molti hanno ricondotto alla genetica, anche qui, lei figlia di Pino Mango e Laura Valente, quest’ultima incredibile voce dei Matia Bazar del post-Antonella Ruggero, la loro Volo anch’io è una delle tante perle uscite dalla penna di Carlo Marrale e soci che non è mai uscita dalla mia playlist personale, in realtà un talento e basta, una voce decisamente educata e cristallina che la giovane artista usa con personalità e padronanza, tenendo conto dei canoni di oggi e riuscendo appunto a essere virtuosa pur in metriche che di loro non concedono troppo al virtuosismo. La canzone che è da poco uscita, quella di cui sto provando a parlare da un numero decisamente esagerato di parole, duemila e tre da che questo testo è cominciato, ora sono duemilaquindici, si intitola Fila indiana, e credo sia una delle canzoni che parlano di perdita e di lutto più belle che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni, forse dovrei anche fare uno sforzo ulteriore e dire di sempre. Perché, faccio un esempio spero conosciuto a tutti, se Tears in Heaven di Eric Clapton è una canzone che va dritta al punto, sia musicalmente che da un punto di vista del testo, senza mettere su tavolo altro che quel dolore, Fila indiana riesce a essere assolutamente emotivamente coinvolgente, guarda te che giro di parole mi tocca fare, ma al tempo stesso a essere una perfetta canzone pop di questi giorni. Il flow è quello che la commistione di pop e urban sta in qualche modo facendo diventare di uso quotidiano anche in casa nostra, testi lunghi nelle strofe, il peso appoggiato sull’ultima parola della barra, una certa tendenza quasi a mangiarsi le parole che, però, in bocca a Angelina, diventano chiare e pungenti, so che certi paragoni possono risultare eccessivi, come a suo tempo faceva Frank Sinatra, ogni singola parola comprensibile, e in quanto comprensibile dolente, lancinante, addirittura. Perché Fila indiana parla appunto della morte di Pino Mango, chiunque sia dotato di un cuore non può non provare un senso di struggimento pensando a quel suo “scusate” sul palco. Solo che quello che per noi è struggimento momentaneo, dispiacere, per Angelina è stata la morte del padre, di chi, parole sue, l’ha lasciata sola. L’ha lasciata sola da ragazzina. La canzone racconta, di qui il titolo, l’assurdo teatrino, non necessariamente ipocrita, ci mancherebbe, delle visite alla famiglia del morto, i quattrocento mozziconi degli sconosciuti che abbracciano sua madre, quelli trovati da chi in realtà cercava veleno nella spazzatura fuori dalla porta di casa loro, i buffetti dolorosi delle signore in fila indiana sulle sue guance, lei che chiede “volete un bicchiere d’acqua?”. Pur Carver, questo ho pensato, gli occhi velati di uno strato di lacrime, giuro. Poche scene, ridotte all’osso, parole incisive come solo una grande scrittrice sa fare, la forma canzone pretende una sintesi che evidentemente mi è del tutto estranea, come i precedenti versi, quelli che fanno riferimento alla terra che è terra pure senza radici, o al sangue che è sangue, l’evocazione dei vampiri, la contrapposizione tra famiglie sanguinanti e le famiglie felici, tutto è perfettamente a fuoco, una lama che ti strappa via a ogni passaggio uno strato di pelle, puntando al cuore, la leggerezza della forma pop a rendere il tutto incredibilmente bello. È però una frase, in questo dipinto caravaggesco che evidenziando l’oscurità lascia comunque intendere la luce di chi ha fatto pace con quel lutto, che mi ha, da padre, letteralmente steso a tappeto, innalzando la stima che già si era talmente alzata da rischiare di finire oltre la fascia delle frequenze che apre alla distorsione, quando poco dopo la metà Angelina dice, letteralmente, e santo Dio, letterariamente, “Ero un essere speciale/ ma non hanno avuto cura di me/ l’amore è avere cura di me/ L’amore è chiamare ogni mattina una parola per me/ Bastava una parola per me”, per poi proseguire in un crescendo ansiogeno, perfettamente in grado di riprodurre quello che il testo ci sta già dicendo “Io so cosa vuol dire amare da morire/ ho bisogno di uscire/ non riesco a respirare/ devo andare via”, tenuto perfettamente da un punto di vista vocale, ma al tempo stesso ansimante, come di chi, appunto, non riesca a respirare in una situazione di oppressione. Ripeto, raramente mi è capitato di trovare in una canzone riportata alla perfezione quelle sensazioni, quell’oscuro abisso raccontato riuscendo comunque a rimanere sopra la superficie delle onde, ogni tanto andando sotto, ma sempre riemergendo, senza annegare o rischiare di affogare.
So che spesso si guarda al pop come a qualcosa di effimero, di destinato a un ascolto distratto, frammentario, da sottofondo. Forse per quel fraintendimento che confonde consumo e pop(olarità) con superficialità, non prevedendo, appunto che sotto la superficie può anche trovarsi la profondità del mare, e che quindi anche quelle opere destinate al consumo e alla popolarità possano avere un peso specifico alto, altro che trattarle come mercanzie da bancone. Io credo, ci ho in fondo dedicato una parte importante della mia vita, applicata alle lettere perché ho sempre provato a riempire un vuoto con un pieno, credo di aver indicato, spudoratamente, i motivi di questo mio agitarmi come uno scalmanato sulla tastiera proprio duemilasettecento e rotte parole fa, io credo che il pop possa veicolare sentimenti profondi, spesso svincolati dalle nostre letture personalistiche, l’associare una determinata canzone a un determinato momento della nostra vita, trasformando quindi una colonna sonora in un nostro vissuto, a prescindere da quale colonna sonora sia. Credo, cioè, che certe opere dovrebbero essere trattate con cura, come con cura andrebbero trattati chi quelle opere ci regala. Credo, quindi, ma ne sono davvero certo, che Angelina Mango sia un talento puro, di cui tutti dovremmo essere grati. Perché è stata e è in grado di sublimare un dolore vero, suo, sublimando come fa l’arte, anche dolori nostri, con una grazia che solo i grandi artisti possono maneggiare. Fila indiana è una grandissima canzone. Angelina Mango una artista che non potrà che diventare un punto fermo della nostra musica cosiddetta leggera, anche perché penso lo sia già adesso, nel presente. Prendiamoci tutti cura di lei.