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Bella “Dirty Pop: la truffa delle boy band”, ma dove sono finite le accuse? Ecco cosa manca nella serie Netflix sul manager Lou Pearlman, dai Backstreet Boys agli ‘N Sync

  • di Irene Natali Irene Natali

29 luglio 2024

Bella “Dirty Pop: la truffa delle boy band”, ma dove sono finite le accuse? Ecco cosa manca nella serie Netflix sul manager Lou Pearlman, dai Backstreet Boys agli ‘N Sync
Lou Pearlman è il nome che dovete conoscere se volete scoprire cosa c'era dietro al mondo delle boy band. La serie Netflix “Dirty Pop” parla di lui ma non dice tutto. Com'è possibile che in due ore si siano scordati di menzionare alcune accuse gravi come...

di Irene Natali Irene Natali

“Dirty pop, baby you can't stop” cantavano gli 'N Sync nel 2001: è stata la parabola del loro creatore, Lou Pearlman. Un pop che si è rivelato “sporco” e che Pearlman non poteva fermare: perché gli serviva per finanziare le sue attività illecite. Da quel verso di Pop, singolo degli 'N Sync del 2001, prende il nome il documentario che Netflix ha rilasciato mercoledì 24 luglio: Dirty Pop: la truffa delle boy band. Tre puntate di quaranta minuti circa ciascuna, per raccontare la storia del più grande schema piramidale avvenuto negli Usa. Una truffa portata avanti per decenni, a cui abbiamo partecipato un po’ tutti nel ruolo di fan: finché ci saranno ragazzine ci saranno le boy band, dichiarava Pearlman. Pearlman infatti, ha creato un vero e proprio business delle boyband. Ha iniziato con i BackStreet Boys prendendo ispirazione dai New Kids On The Block, ha continuato con gli 'N Sync, e quando i due gruppi gli hanno fatto causa perché hanno capito che i guadagni del proprio erano irrisori, è andato avanti con gli O Town. Sono seguiti reality per trovare i nuovi eredi dei ragazzi d’oro del pop, ma anche teen idol: Pearlman ha dominato l’industria musicale degli anni Novanta e primi Duemila. Tutti loro però, erano sia una copertura per la truffa sugli investimenti dei privati, che un mezzo per attrarre nuovi investitori. Sfarzo, ville faraoniche, aerei privati, feste vip dove gli invitati non erano “amici” come raccontato ai ragazzi, ma investitori da attirare. Così si alimentava il tutto: il prestigio nello show business garantiva credibilità, nel frattempo la sua fittizia compagnia aerea falsificava assegni e intascava premi di assicurazione; intanto, i privati investivano nelle azioni della Trans Continental di Pearlman. Ai suoi stessi pupilli, a fronte di un successo mondiale, rimanevano le briciole. Il pop colorato, insomma, era la facciata splendente di una truffa mai vista.

Lou Pearlman con i Backstreet Boys
Lou Pearlman con i Backstreet Boys
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Al documentario di Netflix manca l'approfondimento emotivo sui protagonisti: ragazzi giovanissimi lontani dalle famiglie, impegnati a ballare e cantare per ore, trattati da figli e poi messi in competizione gli uni con gli altri. Quando si dice “giovanissimi” si intende proprio adolescenti o poco più; basti pensare che il Nick Carter reclutato da Pearlman per entrare nei BackStreet Boys aveva appena dodici anni. Un grande tradimento quando i BackStreet Boys hanno scoperto che mentre erano in Europa in tour senza nemmeno poter tornare a casa per Natale, in Florida Pearlman tirava su in gran segreto gli 'N Sync; un grande senso di rivalsa degli 'N Sync sui BackStreet Boys per non essere la ruota di scorta. Del resto, lo stesso Pearlman spiegava cinicamente che i BackStreet Boys fossero la Coca Cola e che prima che qualcuno potesse creare la Pepsi, aveva provveduto lui stesso. La Pepsi erano gli 'N Sync ovviamente. Netflix ci mostra bene il lavoro di questi ragazzi che, all'epoca, erano trattati con grande sufficienza dall'industria musicale. Invece dietro c'erano ore e ore chiusi in un hangar a ballare e cantare, tour di anni nelle scuole d'America prima di firmare con un'etichetta. Insomma: vero e proprio lavoro minorile per alcuni, o comunque gratuito. Poi i tour in Europa, in America, sempre a disposizione dei bisogni di Pearlman. Il compenso? diecimila dollari. “Era una cifra che non avevo mai visto – racconta Chris Kirkpatrick degli Sync – ma poi JC, quello intelligente, mi ha detto: Pensaci, in un anno di lavoro al ristorante, quanto guadagnavi?”

Lou Pearlman
Lou Pearlman

Rimangono sullo sfondo le accuse di pedofilia a Pearlman, accennate ma non approfondite. L'aspetto emotivo veniva invece messo in risalto in un documentario del 2019, rilasciato da You Tube: The Boy Band Con: The Lou Pearlman Story. Lì la figura di Aaron Carter, il fratello minore di Nick, era la più emblematica: gratitudine per la figura di Lou Pearlman e allo stesso tempo lacrime incontrollate, voce tremante. Un ragazzo perso; tre anni dopo, il 5 novembre 2022, sarebbe finita in tragedia. Forse perché i fan di allora sono i giornalisti, i produttori, gli autori tv di oggi, forse perché è cambiata la sensibilità sui alcuni temi, negli Usa è chiara la tendenza a indagare sui fenomeni pop di quegli anni. Dagli abusi di Quiet On Set, di cui vi abbiamo già parlato, al più recente Nick e Aaron Carter: la caduta delle star di Prime Video, fino a questo ultimo prodotto di Netflix, il mondo sfavillante dei nostri idoli adolescenziali è già stato scoperchiato in diverse occasioni. Senza dimenticare la conservatorship di Britney Spears. Ora l'industria musicale è cambiata, le boy band non vanno più di moda. L'eredità di Lou Pearlman?L'idea che la musica fosse un prodotto da creare in laboratorio e perfettamente replicabile, solo che adesso bastano la tecnologia e del buon marketing.

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