Il 1348 fu l’anno in cui la “pestifera mortilenza” si diffuse in tutta Europa; il 2024 l’anno in cui la “pestifera mortilenza” non è quella di Giovanni Boccaccio, ma di Netflix. Ieri infatti, giovedì 25 luglio, la piattaforma ha rilasciato un libero adattamento del Decameron di Boccaccio intitolato appunto The Decameron. Indegnamente, verrebbe da puntualizzare dopo aver visto la serie. Ma andiamo con ordine. Innanzitutto questi otto episodi sono made in Usa: a stelle e strisce la creatrice Kathleen Jordan, idem il cast. Già qui verrebbe da storcere il naso: non per motivi patriottici o campanilismi un tanto al chilo, ma perché ci si chiede come sia mai possibile che l’esperienza del Covid abbia ispirato gente dall’altra parte dell’Oceano e non un qualche italiano. Poi parte lo streaming, e il motivo appare chiaro: nella penisola il Decameron si studia a scuola, e forse da quest’altra parte dell’Oceano, un po’ rispetto per l’opera ancora ce l'abbiamo. La serie comincia con i topi che scorrazzano dentro Firenze, i cadaveri delle persone in strada; finisce come un action movie scalcinato in cui i protagonisti combattono goffamente contro i cattivi della situazione in una lotta per la sopravvivenza. Qualcuno muore per salvare i compagni e permettergli di fuggire dalla villa. Nel frattempo, dei giovani che fuggono in campagna raccontandosi novelle per trascorrere il tempo, non v'è traccia. Ci sono invece tutti quegli elementi presenti nel libretto delle istruzioni per la realizzazione di una serie Netflix: le pulsioni ses*uali, omosessuali incluse, i protagonisti di etnie diverse, una qualche critica sociale in nome dell'inclusività. Qui si è scelto di puntare sull'iniquità sociale: i nobili che guardano le sofferenze del popolo da lontano, senza rinunciare ai propri privilegi persino nel mezzo della peste.
Ma in una situazione in cui la morte è sempre dietro l'angolo, le maschere cadono: i ruoli sociali perdono di senso, la morte che si avvicina spaventa ma fa anche sentire liberi. Il soggiorno in villa nella campagna “meravigliosa e non infestata” si trasforma così in una lotta per la sopravvivenza dai briganti mercenari. A questo punto, la domanda sorge davvero spontanea. Va bene il libero adattamento, va bene pure il patto con lo spettatore, la sospensione dell'incredulità, ma: perché intitolarlo Decameron, se dell'opera di Boccaccio non rimane niente? La goliardia del testo originale viene resa nel tono scanzonato di certe battute, nella recitazione eccessiva, macchiettistica dei protagonisti; recitazione a cui il doppiaggio italiano rende un pessimo servizio. A margine, il povero spettatore non può che chiedersi: siamo alle porte di Firenze, la terra della lingua volgare, possibile non vi sia un accenno di inflessione toscana nei dialoghi? Nemmeno nelle battute? Una volta tanto che serve un toscano, non se ne vede uno. Perciò il Decameron di Netflix riesce pure in quest'altra, incredibile, impresa: far rimpiangere i toscani. Con buona pace di Stanis La Rochelle e della sua iconica battuta. “L'amore è un fardello”, osserva il personaggio di Licisca nel finale. Proprio come una serie in costume che si spaccia per qualcosa che non è.