Il sesso è morto? O meglio: in un’epoca in cui tutto è sovraesposto, iper-raccontato, mercificato e disponibile con un clic, ha ancora senso parlare di desiderio? Oppure l’eccitazione si sta spostando sempre più dalla dimensione fisica a quella mentale, basandosi su stimoli e parole anziché su corpi nudi? Ne abbiamo parlato con Benny Green, creator di OnlyFans, showgirl e voce fuori dal coro in un panorama in cui il lavoro sessuale continua a essere letto attraverso lenti distorte, tra moralismi, voyeurismo e un femminismo che ancora fatica a decidere da che parte stare. Ancora il dilemma etico. Carla Lonzi e il femminismo che le si era presentato come lo sbocco tra le alternative simboliche della condizione femminile, la prostituzione e la clausura: riuscire a vivere senza vendere il proprio corpo e senza rinunciarvi. Ma quindi spogliarsi significa liberarsi? E se fosse davvero la donna, come sostiene Benny Green, ad avere potere sull'uomo? È possibile essere femministe e sex worker allo stesso tempo? Il pretesto della nostra intervista - incontro è stato Anora, il film di Sean Baker he ha vinto cinque premi Oscar: sullo schermo la storia di una sex worker di nome Anora e il suo viaggio nell'amore e il dolore. Ma quello che ci ha fatto vedere il regista di Tangerine nel suo ultimo film è uno spaccato realistico del mondo del sex work o è solo un'altra favola finita male?

Benny Green. C'è spesso un dibattito su tutto il mondo legato sia a OnlyFans che al lavoro sessuale in generale. Alcuni lo vedono come una scelta consapevole, mentre altri lo considerano una forma di sfruttamento. Cosa risponderesti a chi la pensa ancora così, oggi, nel 2025?
Questo è un luogo comune che sento dire molto spesso. Io non penso assolutamente che sia una forma di sfruttamento del corpo, assolutamente no. Penso piuttosto che si tratti di un eventuale sfruttamento dell’immagine, e questa è una differenza fondamentale. Anche quando si parla di lap dance o di spettacoli nei club notturni, il punto centrale è sempre l’immagine e l’intrattenimento, non il corpo in sé o la prestazione sessuale. Escluderei, quindi, l’idea che sia uno sfruttamento in ogni caso. Se guardiamo chi sono i fruitori di queste piattaforme e di questo tipo di intrattenimento, direi che, in un certo senso, è l’uomo a essere mercificato. È lui a diventare il compratore del prodotto. Se una donna maggiorenne – anche se molto giovane, perché a 18 anni spesso non si è pienamente consapevoli delle proprie scelte – decide di vendere questo tipo di contenuti, sta comunque vendendo la propria immagine a un pubblico che, in un certo senso, subisce questa dinamica.
In che senso “subisce questa dinamica”?
Io, che utilizzo in prima persona OnlyFans, noto spesso che non si vende solo un contenuto visivo, ma anche un’idea di sé. Gli acquirenti si convincono di avere una sorta di rapporto speciale con la content creator, quasi come se fosse una partner immaginaria. Noi, in realtà, non facciamo altro che alimentare queste aspettative, creando un’illusione fittizia nel web, in bilico tra sentimenti e seduzione. Credo, quindi, che non sia la donna a essere sfruttata. Vorrei scardinare questa convinzione, perché sembra quasi si stia parlando di tratta delle schiave, ma non è assolutamente così. In primo luogo, non è una costrizione. E in secondo luogo, forse non è l’uomo quello sfruttato? Lo dico anche contro me stessa: spesso è l’uomo che si fa vendere qualsiasi tipo di servizio o prodotto, che sia un contenuto particolare o anche solo una chat. A volte cerca perfino una forma di illusione, di amicizia o di rapporto con la sex worker.
Bea Secrets a MOW ha detto che lavorare su OnlyFans è un po’ come essere la ragazza, la fidanzata virtuale degli utenti. Sei d'accordo?
Sì, sì, assolutamente sì. Molte creator su OnlyFans occultano la loro vita personale, a meno che non abbiano scelto fin dall’inizio di impostare il proprio brand come un brand di coppia. Anche se si tratta di figure virtuali, raggiungibili solo tramite il web e che gli uomini non incontrano fisicamente, si crea un’illusione. L’utente si convince che quella donna sia speciale per lui, che quei dieci minuti di chat siano esclusivi, che il contenuto che riceve sia più speciale di quello che ricevono gli altri. Si alimenta una sorta di illusione positiva. L’uomo, anche se razionalmente sa che è tutto marketing, vuole credere di avere un rapporto personale con la creator, come se fosse la sua fidanzatina ideale. Se, invece, mostri qualcosa della tua vita privata, la percezione cambia. Me ne accorgo concretamente: se pubblico una storia su Instagram in cui si intravede il mio compagno, noto subito una sorta di delusione da parte del pubblico.
E il tuo ragazzo come vive questa cosa?
All’inizio, quando facevo ancora contenuti hard in modo professionale, lui… diciamo che non era un problema per lui, perché mi ha conosciuto così, tramite il web. Lui mi dice – anche se sappiamo che gli uomini non sempre dicono tutta la verità – che lo attraeva il mio modo di parlare e di raccontarmi. Mi ha conosciuto come Benny Green, ma poi, vivendomi nella vita reale, faceva fatica ad associare quell’immagine alla mia persona. Tant’è che non ha mai visto un mio porno. Quando ho deciso di lasciare l’hard professionale per lavorare solo su OnlyFans, senza più fare contenuti con altri uomini, lui ha accolto questa scelta con grande piacere. Facevo anche show nei locali, erano spettacoli hard, ma oggi ho deciso di gestire il mio lavoro in modo diverso.

Senti ma le critiche per il mestiere che fai, per l'esposizione del corpo, arrivano più dagli uomini o dalle donne?
Dagli uomini. Le donne, quando criticano, lo fanno in modo più pungente, ma lo fanno meno. Gli uomini, invece, si dividono in due fazioni: i pro e i contro. Alcuni non fanno altro che ripetere luoghi comuni. Poi bisogna ricordarsi una cosa. Pornhub ha più visualizzazioni di Amazon e Netflix messe insieme. Sono dati reali.
Quindi c’è una contraddizione tra l’enorme richiesta e le critiche sui social?
Esatto. Se c’è tutta questa offerta, significa che c’è una domanda esorbitante. Ma sui social trovi solo critiche. È evidente che molti cercano di auto-giustificarsi pubblicamente con discorsi politicamente corretti, ma poi consumano questi contenuti in privato. È più facile dire a una donna che vende contenuti nudi che non può parlare di moralità o cultura. Ma perché? Se mi spoglio, non posso essere colta? Nella mia intimità non mi spoglio? È un concetto sbagliato.
Un altro luogo comune è che il tuo sia un lavoro facile.
No, non lo è affatto. La cosa più difficile è avere sempre voglia di sedurre. Anche quando fai la cam da casa, devi sempre ammiccare. E per noi donne, che siamo molto umorali, non è sempre una cosa naturale. È una forma di recitazione. Le creator non sono creature ossessionate dal sesso 24 ore su 24. Sono donne normali che impersonano un ruolo per stimolare una reazione. Come un comico stimola la risata, noi stimoliamo un altro tipo di reazione.
Anche se a volte può essere faticoso?
Certo. Ma se offro un servizio, mi calo nel personaggio e lo faccio.
Quindi è un lavoro che dà potere alla donna?
Non è una questione di dominio, ma sicuramente non è una sottomissione.
Oggi che siamo in una totale sovraesposizione, c'è una spettacolarizzazione eccessiva anche del corpo e del sesso?
Sì, siamo arrivati al paradosso. E, come in tutte le estremizzazioni, alla fine arriva la noia. Ora sono una donna matura. Ho voluto sperimentare un altro approccio che vada ben oltre contenuti espliciti. Voglio capire se le persone sono ancora pronte a farsi intrigare in modo più sottile, o se tutto si riduce a uno scroll infinito sui social. Diciamo che è anche una sfida per me stessa. È il mio modo di mettermi in gioco e trovare nuovi stimoli.

Passiamo ad Anora, film che ha vinto ben cinque premi Oscar. Mikey Madison, la protagonista, ha vinto l’Oscar come miglior attrice. Sarebbe stato più opportuno scegliere una vera sex worker per il ruolo?
Forse sarebbe potuta essere una scelta interessante, perché esistono molte sex worker che studiano o hanno una vita normale oltre al lavoro nel settore e conoscono il campo molto meglio. Ci sono molte ragazze che lavorano su piattaforme come OnlyFans o che alternano il lavoro in un club ad altre professioni, e probabilmente avrebbero potuto portare un valore aggiunto. Forse la scelta migliore sarebbe stata quella di coinvolgere una figura che si trova a cavallo tra questi due mondi, legata al sex work e al mondo puramente attoriale, una persona con esperienza diretta e con le capacità attoriali necessarie per interpretare il ruolo.
Sean Baker ha sempre raccontato storie legate al mondo delle sex worker e ha dichiarato di conoscere bene questa realtà. Come giudichi la rappresentazione del settore nel film?
Bisogna considerare che il film non è ambientato in Italia, dove la realtà è molto diversa. Altrove, i club di lap dance sono molto diffusi e parte della cultura locale. Negli Stati Uniti, ad esempio, c’è una mentalità diversa: il cliente è abituato a lasciare la tip (mancia) alla performer, rendendo il lavoro più stimolante e meritocratico. In Italia, invece, le stripper spesso lavorano per ore davanti a clienti annoiati, che restano seduti senza partecipare attivamente allo spettacolo. Questa indifferenza mi ha sempre fatto riflettere: ci siamo assuefatti alla nudità? Forse, a forza di mostrare troppo, l’intrattenimento erotico ha perso parte del suo fascino.
Parliamo di rappresentazione del sex work tra cinema e tv. Ti sembra che Anora sia riuscito a evitare una serie di stereotipi?
Sì, capita spesso di vedere rappresentazioni poco accurate del mondo del sex work, con confusione tra concetti come privè, scambismo, support, lap dance. A volte si attinge a fonti superficiali senza una reale conoscenza dell’ambiente dell’intrattenimento erotico. In una serie come SuperSex, grazie alla presenza di Rocco Siffredi, c’è stata una maggiore attenzione alla realtà del settore. Tuttavia, in altre produzioni ho notato errori di fondo che creano un’immagine distorta del mondo delle sex worker.
Anora ha conquistato cinque Oscar. Quanto conta che un film del genere, con queste tematiche, sia stato premiato così tanto?
È molto importante. Non capita spesso che determinati contenuti ottengano un riconoscimento così forte.
Quindi lo consideri un risultato significativo?
Assolutamente sì. A livello educativo e sociale, è un messaggio importante. Troppo spesso temi come questi vengono relegati in secondo piano, nonostante siano molto diffusi. Il fatto che un film affronti certe tematiche e venga premiato dimostra che qualcosa sta cambiando. È un passo verso la normalizzazione del fatto che persone che lavorano con la propria immagine possano essere anche individui con sentimenti, difficoltà, pregiudizi da affrontare, proprio come accade nella vita reale. È qualcosa che ho vissuto anche io, in parte, nella mia vita e nella mia relazione, così come molte altre colleghe. Quindi, ben venga se questo concetto viene umanizzato. Devo aggiungere una cosa negativa su Anora.
Cosa?
Ancora una volta la figura maschile viene rappresentata come l’elemento salvifico, il simbolo della virilità che guida la donna fuori dagli errori della sua vita. Non so se siamo pronti a decostruire del tutto questo concetto. Forse servono ancora diversi passaggi, soprattutto in un contesto come quello italiano, dove la struttura familiare è ancora molto legata a certi valori tradizionali.
Nel film la famiglia della protagonista è assente, ha un significato particolare per te?
Esattamente, è un elemento chiave. Bisogna contestualizzare il fatto che una donna che sceglie di fare questo lavoro non deve per forza essere una persona in difficoltà o con problemi. Purtroppo, lo stereotipo è sempre quello: se fai un certo tipo di lavoro, allora devi essere per forza disagiata.
Ti sei mai scontrata con questi pregiudizi?
Sì, continuamente. Quando espongo le mie idee, molte persone faticano ad accettare che io possa avere un pensiero articolato, solo perché ho fatto un certo lavoro. Esiste ancora questa convinzione per cui una sex worker debba essere ignorante o problematica. Ma la verità è che l’ignoranza e la cattiveria si trovano ovunque, anche in ambienti e lavori considerati “rispettabili”. Sono solo luoghi comuni.
Questo tipo di narrazione si riflette anche nella percezione della libertà sessuale?
Assolutamente. C’è sempre l’idea che l’uomo che fa sesso è virile, mentre la donna viene giudicata negativamente. È una sorta di caccia alle streghe ancora in atto. Certo, si stanno facendo piccoli passi avanti: il web è pieno di contenuti sull’argomento, i numeri parlano, l’eros è ovunque, perfino in prima serata su Canale 5. Ma c’è ancora quella spinta a mantenere un’immagine “decorosa” della famiglia tradizionale.
Quindi promuoviamo Anora? Se sì, con che voto?
Se mi baso sulla protagonista, direi un bel 9. Però, considerando la narrazione ancora legata allo schema dell’uomo che salva la donna, direi che si potrebbe togliere un punto.
Un altro film candidato agli Oscar è The Substance con Demi Moore che ha affrontato il tema del body positivity, anche se qualcuno l’ha frainteso come un inno all’esasperazione. Cosa ne pensi della sua visione femminile, il ritratto di una donna matura in lotta con il suo aspetto?
Ho apprezzato molto il punto di vista femminile del film. Non sono state tanto le scene cruente o le macro-riprese a colpirmi, quanto il modo crudo in cui la protagonista si mette a nudo, creando un forte impatto emotivo. Credo che ogni donna, di qualsiasi età, possa riconoscersi in alcuni momenti del film. Il film è studiato nei minimi dettagli, dai simbolismi cromatici alle citazioni di registi del passato. Per me è un capolavoro. Quando una regista donna affronta certe tematiche, riesce ad aggiungere una profondità e una sensibilità che altrimenti potrebbero mancare.

