Nel 2008 Dargen D’Amico pubblica Di Vizi di Forma Virtù, una trentina di tracce che ti trascinano verso il sottosuolo con l’immediatezza di un ascensore, un tour nella vita di chi vuole campare della propria arte. È l’esistenza di un artista newyorchese prima della fama, uno che vive di avanzi altrui razionalizzando le proprie risorse esclusivamente verso il pensiero: compra sostanze, alcolici, sigarette, sesso. L’artista è Dargen, New York è Milano. Nel brano che dà il nome al disco, la Title Track, l'ex rapper racconta il suo approccio a questo genere di cose: “Imita Gesù / fallo pure tu / fai di vizi di forma / virtù”.
Questo esercizio, "fai di vizi di forma virtù", l’ha fatto anche in prima serata sulla TV di Stato quasi vent’anni più tardi. Nella prima serata di Sanremo 2024 Dargen D'Amico è l’unico a spezzare un clamoroso piattume tra i concorrenti in gara che si susseguono sul palco. Loro cantano, regalano i fiori a qualcuno e se ne vanno ringraziando il deus ex machina del Festival della Canzone Italiana per aver graziato loro e non qualcuno di più bravo. I cantanti sono in partita iva e per buona parte di loro Sanremo è come quel gratta e vinci finalmente benedetto con cui integrare una misera pensione, un aiuto della provvidenza tanto vitale quanto insperato. Se annaspi tra soldi, vestiti e streaming non potrai mai essere libero, ti aspetta invece una vita castrata dal debito perpetuo con le aspettative tue e degli altri, un giochino in cui ti prostituisci sperando di tirarne fuori due soldi per pagare l’anticipo della casa vista mare che sogni da vent'anni.
Dargen D’Amico se ne fotteva prima e se ne fotte anche adesso: la libertà viene prima del resto. Così per questo 2024 debutta all'Ariston battendo l’indice sul polso, come a dire che l’hanno chiamato tardi, tant'è che lo stesso Amadeus si sente in dovere di spiegare che nella seconda serata l’ordine delle esibizioni verrà invertito. D’Amico canta Onda Alta, poi prende il microfono e prima di congedarsi lascia un messaggio sulle bombe nel Mediterraneo e i bambini che si trovano: “Sotto le bombe, senza cibo e acqua”, aggiungendo che “Il nostro silenzio è corresponsabilità”. Poi chiude con un inequivocabile “Cessate il fuoco, la storia e Dio non accettano la scena muta”.
È un momento fuori scaletta, gocce di purezza. Nel 2024 non ci sono Morgan e Bugo che litigano, Blanco che distrugge il palco, Rosa Chemical che limona con Fedez. C’è Dargen D’Amico che ci ricorda di una guerra (se non vogliamo dire genocidio, come invece fanno a Bruxelles) di cui continuiamo a non interessarci abbastanza. Di cui ci frega meno di niente, per dirla tutta. Sanremo si è portato via la qualunque: lo sciopero degli agricoltori, il dibattito su Ilaria Salis, le nuove tecnologie che ci rincoglioniscono e, soprattutto, la guerra, da Gaza allo Yemen.
Nella seconda serata Diodato dice di condividere pienamente le parole di Dargen. Questo endorsement, questo piccolo fight club contro la guerra in diretta, è l’unica vera notizia uscita da Sanremo che non sia autoriferita al Festival. È paradossale che stiamo a parlarne come qualcosa di proibito, di sporco, di un po’ eccessivo e addirittura trasgressivo, sembra che si possa essere tutto in questo mondo ma non contro il denaro. Si può essere omosessuali, stranieri, menomati, malati e scemati - inteso come vittime di un qualche tipo di shaming - ma non si può stare contro gli sponsor. Contro il Mostro. Quando un pensiero contro la guerra lo scrisse Gianni Rodani con il suo Promemoria nessuno pensò che potesse essere sconcio o politicizzato. A fine esibizione, nella seconda serata, Dargen se ne esce con un’altra frase totale: “Tornando a casa ho letto commenti sulla mia esternazione. Io ho fatto tante cazz*te, ho commesso tanti peccati, anche gravi, ma mai ho pensato di avvicinarmi alla politica. Io non volevo essere politico”. Questo non è ritrattare.
Questo è Dargen D’Amico che prende spunto dalle sue stesse idee per fare di vizi di forma, il “cessate il fuoco” della prima serata, una virtù “non c’era niente di politico” precisato nella seconda. Dargen è da applaudire soltanto, al netto di quello che si possa credere o meno del conflitto Israelo-Palestinese: è stato l’unico, in due infinite nottate televisive, a farci sentire quello che pensava, a usare il palco più importante del nostro paese per qualcosa che non fosse buonismo, retorica e, come direbbe Fulvio Abbate, amichettismo.
È demoralizzante rendersi conto del fatto che l’unica esternazione sul mondo reale di questo Sanremo sia uscita da un cantante schierato contro la guerra. Nessuno entra nel merito. È tutto un capire se poteva farlo, se avrebbe dovuto toglierei gli orsetti di dosso e se sia stato giusto, nella seconda serata, distaccarsi dalla politica per riportare l’attenzione al tema centrale, chiedendo di non essere strumentalizzato. Chissà cosa ne penserà la comunità ebraica, notoriamente permalosa quando qualcuno ricorda loro che sterminare un popolo è brutto almeno quanto essere sterminati. E chissà cosa ne pensa il pubblico tutto, anestetizzato sul divano con pezzi di cibo tra i denti e la coperta sui piedi. Per non dire di chi, per tenersi un mestiere e non schiantarsi mai, continua a sorvolare, ad osservare da lontano. Ma Sanremo è Sanremo, e l’unica cosa che conta è che le cose vadano avanti.