Cosa succede quando gli intellettuali escono dalle scuole? Quando passano dalla prima fila di banchi, che quasi sentono l’alito dell’insegnante che dice loro “bravi”, a una società che non ha nessuna sindrome di inferiorità nei confronti di chi è intelligente? Fuori il mondo è inospitale, per loro, soprattutto se non possono far valere i loro meriti, il nozionismo selvaggio, il dar di conto e soprattutto il dar di contro. Gli intellettuali non sempre sono critici, spesso sono criticoni. Spesso lo diventano, anche, per colpa di una frustrazione di base che è stata spiegata, venticinque anni fa, dal filosofo americano Robert Nozick (di cui la maggior parte dell’intellighenzia italiana non ha mai sentito parlare). Nozick scrisse un articolo che si intitolava così: Perché gli intellettuali si oppongono al capitalismo? Ora ci arriviamo. Chiara Valerio partecipa a un panel “Vivere per scrivere/scrivere per vivere” al Tempo delle donne (evento targato Corriere della Sera). Lo ha fatto alla fine del terzo quarto di un anno decisamente fortunato, basti pensare alla candidatura per il Premio Strega con Chi dice e chi tace (Sellerio, 2024). Valerio parla del suo rapporto con la scuola e dei suoi voti altissimi, a cui la mamma, tuttavia, non sembrava dare troppa attenzione. “A scuola, quando prendevo 10, mia mamma non mi diceva mai ‘brava’. Così andavo da lei e le chiedevo: ‘Mamma, perché non mi dici ‘brava’?’. E lei rispondeva: ‘Perché non sono paternalista’”. Perché la mamma non gli dice brava? È cattiva? È troppo dura? È indifferente? Forse l’ultima, forse era una lezione, vogliamo credere che Chiara Valerio abbia imparato da questa esperienza qualcosa che non sempre viene espresso in modo chiaro e diretto, ma che fa parte di una serie di premesse di base che permettono alla nostra società di funzionare anche senza vivere sotto una repubblica degli intellettuali, la mostruosità platonica tanto criticata da Popper (segnatevi anche questo nome). Ma sembra di no. In fondo Chiara Valerio potrebbe essere ascrivibile a quel pool di intellettuali che criticano sistematicamente il nostro sistema, tra patriarcato, colonialismo e, soprattutto, capitalismo. Il capitalismo è il minimo comune denominatore di tutti i criticoni dell’Occidente, da Raimo e Valerio, passando persino per gli intellettuali della nuova destra. Il capitalismo mette d’accordo tutti, fascisti e comunisti, mezzi mezzi (i rossobruni) e i mezzi bianchi (cioè i moderati). Tutti ce l’hanno con il libero mercato, ma la motivazione non è quella che credete.
E qui entra in gioco Nozick: “L’opposizione degli intellettuali parolieri al capitalismo è un fatto di rilevanza sociale. Essi plasmano le nostre idee e immagini della società; stabiliscono le alternative politiche che le burocrazie prendono in considerazione. Dai trattati agli slogan, ci danno le frasi per esprimerci. La loro opposizione è importante, soprattutto in una società che dipende sempre di più dalla formulazione esplicita e dalla diffusione delle informazioni”. Per questo vanno compresi i meccanismi nascosti dalla loro pratica. Sbracciano e parlano di sfruttamento (spesso dimostrando involontariamente, loro che pubblicano su La Stampa, Einaudi e vanno agli eventi del Corriere, di non essere sfruttati e quindi di parlare per sentito dire), fame nel mondo, alienazione e sbrodolano tutto il vocabolario di derivazione marxista, rimasticato da qualche postmoderno post-sbronza. Ma la motivazione è fin troppo umana e più semplice di quella che credete. “Gli intellettuali ritengono di essere le persone più preziose, quelle con il merito più alto, e che la società dovrebbe ricompensare le persone in base al loro valore e merito. Ma una società capitalista non soddisfa il principio di distribuzione ‘a ciascuno secondo il suo merito o valore’. A parte i doni, le eredità e le vincite al gioco d'azzardo che si verificano in una società libera, il mercato distribuisce a coloro che soddisfano le richieste percepite dal mercato degli altri, e quanto distribuisce dipende da quanto viene richiesto e da quanto è grande l'offerta alternativa. Gli imprenditori e i lavoratori senza successo non hanno lo stesso animus contro il sistema capitalista come gli intellettuali parolieri. Solo il senso di superiorità non riconosciuta, di diritto tradito, produce quell'animus”. Parafrasi: gli intellettuali non riescono proprio ad accettare l’idea di non essere indispensabili tanto quanto gli idraulici e i cuochi, i ristoratori e i brand di moda. Chiunque di questi fallisca sa perché ha fallito. Ma gli intellettuali, così intelligenti e preparati, non riescono a vedere dove sbagliano e puntano i piedi a terra. Decidono che serve rimproverare la società; non perché quest’ultima sia ingiusta, ma perché sarebbe stata ingiusta con loro. Si chiamano capricci, alcuni la chiamano teoria critica. Nelle scuole “venivano giudicati rispetto agli altri e ritenuti superiori. Venivano elogiati e premiati, i preferiti dell'insegnante. Come potevano non considerarsi superiori? Ogni giorno, sperimentavano differenze nella facilità con le idee, nella prontezza di spirito. Le scuole dicevano loro, e mostravano loro, che erano migliori”. Ma il mondo non funziona così. Non vincono i migliori, vince – in modo ben più democratico di quanto non credano – le migliori offerte in campo. Ecco che i dieci di Valerio a scuola spiegano più di mille libri e saggi. L’invidia sociale è il motore nascosto dietro ogni egemonia culturale, sia essa di destra e di sinistra (quest’ultima un tempo rappresentata da Murgia, oggi dalla sua ereda matematica). L’idea di Giuli di ristabilire un primato della cultura di destra è la frustrazione dei dieci e lode a scuola. La stessa di tutti gli Archimede Pitagorico di sinistra. Allora il consiglio è: meno Valerio/Giuli, più mamme di Valerio e casalinghe di Voghera.