Michela Murgia santa a un anno dalla morte come a un giorno dalla morte e come dieci giorni prima e un anno prima. Michela Murgia, che alcuni definiscono “una delle più grandi intellettuali del nostro tempo” (Sloterdijk spostati). E non se ne ha mai abbastanza della moda tutta nostra di celebrare e santificare le feste. Perché quella di Murgia, più che un’opera, è una festa, un ritrovo per amici e amichetti – per usare la terminologia di Fulvio Abbate. O meglio, un ritrovo per epigoni e amichetti, che ora continuano sulla lunga buona scia del successo gridano alla nostra malattia morale, l’egemonia culturale della destra, quando è chiaro che per loro, gli amichetti (come per Murgia), il problema non è tanto l’egemonia culturale, quanto il fatto che sia di destra. Insomma, Murgia difendeva la fortezza e ora la difendono persone forse di minor talento rispetto a Murgia. A un anno dalla morte resta una collana di suoi romanzi uscita con un quotidiano a tiratura nazionale, ricordi ai festival, in televisione, lei, un tempo corifeo dell’intellighenzia e ora fantasma nello stesso ruolo. Davvero uno spettro si aggira per l’Italia, ed è quello dell’intellettualismo del piagnisteo, un intellettualismo che, a dire il vero, pochissimo somiglia a chi lo ha ispirato, Michela Murgia, più combattiva di qualsiasi Saviano e Valerio. Su Domani lo scrittore Alessandro Giammei, figlio d’anima della scrittrice, o chi gli fa i titoli, dice che abbiamo perso una guida per la società civile. La civiltà dei paragoni buoni per andare in trend, come quando disse che tutti gli uomini erano come i figli dei mafiosi, che anche se non sei colpevole godi dei benefici di un sistema criminale. Se poi non ti senti mafioso o figlio di mafiosi, ma figlio di mamma e papà, pure peggio, perché la famiglia tradizionale è il simbolo del cattoliberismopatriarcale, del maschilismo tutto cinghia e pannette per le donne. E se tutto questo non lo hai mai vissuto e sei solo figlio di papà e mamma, ma un papà buono con la mamma, allora sei un privilegiato e non capisci la gente comune. Poi Giammei aggiunge: “L’altro messaggio che ricevo spesso a proposito di Michela Murgia è più semplice e struggente. ‘Manca’, mi scrivono”. E ricorda che lui Michela la legge ogni giorno, ha tutti i suoi libri, anche quelli che ancora devono uscire. Questo, ecco, va rispettato. È, per parafrasare Giammei, il lutto di un orfano che ha avuto “il lusso di ore e ore di registrazioni, pagine e pagine di storie, saggi, articoli in cui ritrovare, lucida e chiara come sarà per sempre, la voce di chi” hai perduto.
Torniamo agli amichetti. Così Michela Murgia si è lasciata alle spalle, più che suoi titoli, un titolo istituzionale che passa di mano in mano, in una cerchia ristretta di prescelti, un po’ come le licenze dei tassisti. È il patentino dei buoni, in grado di delegittimare tutti, ma proprio tutti, tranne loro. A fine primavera Judith Butler, la madrina del transfemminismo queer, quello di Michela Murgia, ospite a Bologna per un convegno sui fascismi, sostenne che il fascismo era, in fondo, tutto ciò che non piaceva a lei, dal fascismo vero e proprio al femminismo transescludente (quello di J. K. Rowling, che invece di amichetti si è lasciata dietro un’opera che resterà). E non era difficile capire quando una cosa era fascista. Ti suona antica? È fascista. Ti suona di buon senso? È fascista. Ti suona e basta? È fascista. Per non essere fasciste le cose non devono suonare. Devono fare rumore, come dice Elena Cecchettin. È un mondo, il nostro, che poteva essere migliore ma anche peggiore. Alla fine abbiamo perso una vera polemista del nostro tempo, anche se non la più grande, né la più originale, né la più ispirata. Comunque, col pelo più duro dei suoi eredi, Michela Murgia a un anno dalla morte è ancora viva, o vorremmo fosse così. Perché dopotutto con lei valeva la pena di essere in disaccordo, anche se nessuno (tranne i vigliacchi della politica) lo faceva dove davvero contava (l’editoria? Il giornalismo? I festival?) e preferivano, piuttosto, lisciarle il queer.