Se n’è andato qualche giorno prima di Natale, quel Natale che ancora una volta avrebbe raggiunto e conquistato a bordo di un’auto di alta cilindrata. Chris Rea, 74 anni, uomo del North Yorkshire, da Middlesbrough, ha salutato tutti lasciando un’eredità artistica alquanto anomala, e per questo preziosa. Avete presente l’estremo nord dell’Inghilterra? Avete idea di cosa volesse dire crescerci all’inizio degli anni ’60? Pochi luoghi dove andare a sbattere la testa, a parte i pub dove sbronzarsi. L’eco di ciò che stava accadendo “giù a Londra” un richiamo beffardo, come a dire: lascia stare, mate, qui si lavora, si spera in tempi migliori e ci si diverte giusto in un sabato sera senza febbre. Rea, origini collocate fra Frosinone e l’Irlanda, partendo da quel mondo acre architettò un’avventurosa fuga artistica. Quasi magica, se pensiamo che il suo primo nome di battaglia fu Benny Santini. Senti parlare di un tale, Benny Santini, e te lo immagini con un mazzo di carte in mano o pronto a estrarre conigli da un cilindro nero. Invece Chris Rea è stato un bluesman. Vero, ma atipico. Vero perché, soprattutto in tarda età (grosso modo dalla pubblicazione di “Blue guitars” del 2005), ha mostrato tutta la sua finezza esecutiva, il suo tocco mai sbrodolante. Atipico perché per anni (soprattutto negli Eighties) ha irradiato il pop inglese con tante canzoni irresistibili, eleganti ed equilibrate. Venate di blues, certo, ma orgogliosamente pop. Così oggi, sotto Natale, viene facile ricordarlo per l’evergreen di stagione “Driving home for Christmas”, ma Rea, un mediterraneo mancato, è stato spesso un feticcio degli scultori del suono Balearic. Jonathan Grey, conosciuto ai più come Jon Sa Trinxa, storico dj e selector del Sa Trinxa di Ses Salines (Ibiza), poche ore fa lo ha celebrato postando sui social uno dei suoi più grandi successi, “On the beach”.
Blues da spiaggia? No, detta così uno pensa a una follia. Tipo un Robert Johnson su basi elettroniche. Invece Chris Rea era autore di livello, aveva una penna pop forse non visionaria ma perennemente intinta in un inchiostro magico. “Josephine”, “On the beach”, “Fool (if you think it’s over”), “Tell me there’s a heaven”, “The road to hell” e “Looking for the summer” avevano tutte quel tratto. Potevi quasi vederlo, Chris Rea, mentre solcava la countryside inglese a bordo di una Caterham Super Seven, percorrendo scenari simili a quelli tratteggiati da Alan Fearnley. La copertina di “Auberge”, album del 1991, è infatti un quadro di Fearnley, “artista di motori”. Prima dell’ottimo “Auberge”, però, il più straordinario successo commerciale dell’intera carriera di Rea, “The road to hell” (1989). Un disco da oltre tre milioni di copie che per qualche stagione iscrisse il suo autore – sempre schivo, lontanissimo da una dimensione da celebrity – nel club dei "più odiati dal mondo indie", quello raccontato, ogni settimana e con militante fervore, da NME e Melody Maker. Un club frequentato dai lettori di Q Magazine, da chi ascoltava i Dire Straits, da chi non avrebbe disdegnato un tè accanto al camino in qualche pub di campagna di matrice Tory. Ma questi sono solo gli strani giri che la musica è sempre stata capace di fare, proprio malgrado, nell’epoca estesa della viralità. Perché Rea fu virale anche senza social. Conquistò tutto il Regno Unito, la Germania, le Baleari e un pezzo d’Italia, dove trovò accoglienza da Red Ronnie, che lo intervistò più volte, e da Carlo Verdone. Nel 1987 – prima quindi del successo definitivo di Rea – uscì “Io e mia sorella”, imprescindibile tassello agrodolce nella carriera del regista e attore romano. In quel film, ben tre canzoni di Chris Rea, ideali per commentare romanzesche peripezie di una storia, ambientata fra Spoleto e Budapest, che profumava di antico.
Chiamiamolo pure “bluesman inglese”, Rea, perché sicuramente è stato anche quello, ma non stupitevi se sarà un’onda del mare, domani, a riportarci un suo fraseggio chitarristico, la sua voce scura, romantica e rassicurante. L’estate agognata. Le strade venerate perché è sulla strada che i cavalli di una Ferrari Dino 308 GT4 del 1980 possono “esprimersi”. Ne collezionava diverse, di auto. Ispirato da una passione folle per le Ferrari. “La passione”, film scritto e prodotto da Rea, uscito in pochi cinema nel 1997, si riferiva proprio a questo. I bolidi rossi, le corse in anni ancora selvaggi, quasi pre-tecnologici; la figura di Wolfgang Von Trips, pilota morto in pista, nel 1961 a Monza, mentre gareggiava alla guida di una di una splendida Ferrari 156 “Sharknose”. I piloti come eroi coraggiosi, imperfetti e solitari. Se questo basterà a farlo ricordare come “il cantautore preferito da chi guarda “Top Gear”, poco male. Rea, sia chiaro, è stato molto altro. “Dimmi se c’è un paradiso”, chiedeva nel 1989, sostenuto da un’orchestra drammatica, alla ricerca di una sintonia con l’Assoluto. Che ora inizi l’inevitabile, ma in questo caso necessario, processo di rivisitazione di un artista talvolta ingiustamente sottovalutato.