Non solo con l’arte si mangia, smentendo una brutta frase pronunciata in passato da un politico sciagurato, ma ci si può persino nutrire. Che è molto di più. Ne è convinta Maria Vittoria Baravelli, la prima art sharer italiana, che sui social – in particolare Instagram – divulga la bellezza del nostro paese (ma non solo) riuscendo ad appassionare i più giovani all’arte antica e contemporanea.
Riduttivo definirla una influencer, visto che da “giovane-vecchia” – come si considera nonostante abbia solo 27 anni – è già curatrice di mostre d’arte e di fotografia e durante il lockdown ha animato l’ambiente con gli “Smart Café”, incontri con alcuni illustri addetti ai lavori che per la prima volta hanno avuto a disposizione un pubblico così ampio per far conoscere la loro attività. Insomma, una vera e propria agitatrice culturale, in perfetto equilibrio fra mondo digitale e reale. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata, durante la quale ci ha spiegato la sua attività, perché l’arte (anche antica) è utile a comprendere sé stessi e ci ha consigliato gli artisti contemporanei da tenere d’occhio, oltre alle migliori mostre del 2020 e quelle da non perdere nel 2021.
Qual è stato il tuo primo approccio con i social?
È stato con Facebook, ma l’art sharing è nato su Instagram. Io faccio parte di una strana generazione. Sono nata nel 1993, per cui non sono una millennial, il primo cellulare l’ho avuto a 14-15 anni, per cui non sono cresciuta già immersa nel digitale. Però appena ho avuto a disposizione questi mezzi li ho fatti miei. Crescere sui social è giusto, però mantenendo una dualità fra reale e virtuale, cercando di cogliere gli aspetti importanti dei due mondi. Oggi possiamo leggere un libro in digitale, solo che non credo sia ancora paragonabile all’esperienza in cartaceo.
I social sono spesso associati, ancora oggi, alla frivolezza e sicuramente non ad attività culturalmente impegnate, mentre invece tu riesci ad avere un grande seguito diffondendo arte e cultura. Come ci sei riuscita?
Instagram è nato come social per il lifestyle, ma nel tempo si è evoluto. A un certo punto sono esplosi e hanno cambiato struttura. A me ha sempre interessato come realtà, perché rappresenta al meglio il nostro periodo storico, dove è preponderante la cultura visuale. L’unico elemento che spesso manca è la necessità di spiegare ciò che vediamo. Oliviero Toscani dice che una foto vale più di mille parole e ha ragione, ma quelle mille parole vanno conosciute per saperle sintetizzare.
Cosa apprezzi e cosa non apprezzi del mondo dei social?
Per ora non ho avuto pessime esperienze, non ho haters e quindi non mi lamento. Posso dire che il problema nasce quando le persone si presentano in modo superficiale e da quell’eccesso di teatralizzazione possono arrivare i rischi. Da che mondo e mondo l’essere umano ha avuto questa necessità, motivo per cui esiste il teatro, ma ovviamente bisogna fare attenzione a non presentarsi per quello che non si è. Questo non solo è sbagliato, ma può risultare anche pericoloso.
L’arte è una passione che ti ha trasferito la tua famiglia o è nata per altre necessità?
Non sono figlia d’arte. L’unica ispirazione che mi è arrivata è da mia madre, che comprava un sacco di riviste, ritagliava gli articoli o le foto che amava e poi conservava tutto in una cartellina che diventava una sorta di bacheca coloratissima, un po’ come su Instagram. Da quella consuetudine materna, forse deriva anche la mia necessità di usare i Post-it per qualsiasi pensiero o impegno. Il problema è che poi li perdo. Ogni volta, però, prima mi incavolo con me stessa perché dovrei essere più ordinata e poi alla fine mi perdono. Comunque, più che la passione per l’arte ho sempre avuto la passione per la cultura in generale che mi deriva dalla necessità di capire. Già dall’adolescenza mi sembrava di poter attingere dall’esperienza degli altri per comprendere qualcosa in più su me stessa.
E com’è arrivata anche l’esigenza di comunicarlo agli altri?
Perché sono una “giovane vecchia”. Non mi piaceva già da bambina stare con i miei coetanei e mi interessavo, appunto, alle “cose da adulti”. A un certo punto ho dovuto fare di necessità virtù, per cui ho iniziato a provare a raccontare agli altri quello che appassionava me. Da lì è nata l’art sharer.
E mi sembra che utilizzi un linguaggio che spesso cerca proprio il contatto con i giovani.
Certo! Quando ascolti le canzoni dei rapper o dei trapper capisci che parlano di storie che i ragazzi hanno sempre vissuto. Per esempio, quando i giovani usano il termine “andare in crash”, lo possiamo associare a quel che accadde a Dante Alighieri con Beatrice. Naturalmente gli addetti ai lavori più istituzionali o accademici rabbrividiscono con questi parallelismi, ma permettono ai ragazzi di capire che i sentimenti che provano possono produrre qualcosa di pregevole.
Ravenna, la tua città, quanto è stata importante per la tua formazione?
Dico sempre che soffro di una “confortevole nostalgia di epoche mai vissute”. Mi riferisco a Ravenna, perché è una fortuna nascere e crescere in un contesto che ha avuto una storia così straordinaria e in cui si sono mischiate una serie di suggestioni tanto pazzesche. Mi viene in mente la poesia di Pier Paolo Pasolini dove parla di Ravenna come di un “tappeto orientale”, perché semplicemente cambiando marciapiede puoi spostarti all’interno della storia. In più è una città che mi ha fatto comprendere da dove deriva la nostra cultura visuale.
Da dove?
Dal cristianesimo! Basta osservare le chiese di Ravenna, così come quelle nel resto d’Italia, per ammirare gli splendidi affreschi e mosaici che prima di tutto erano utili a spiegare la storia a chi non aveva gli strumenti per comprenderla leggendo. Da quelle raffigurazioni arriviamo fino ad Instagram. Inoltre, nell’arte contemporanea, parliamo di opere d’arte totali o che coincidono con il tempo della vita, come nel caso di Marina Abramović che si è chiusa per mesi dentro un museo. Ecco, queste rappresentazioni sono tanto diverse da una messa in una chiesa, con gli affreschi, la musica, l’omelia del parroco ecc ecc? Cambiano i codici, l’estetica, i linguaggi, ma rimane la necessità di sentirsi parte di qualcosa. Oggi avviene tutto ciò attraverso i social. E a Ravenna c’è uno dei primi casi di Photoshop!
A cosa ti riferisci?
Alla Basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Vennero apportate delle modifiche a ciò che vi era raffigurato. Ma l’aspetto strepitoso è che sulle colonne sono ancora presenti le mani delle figure precedenti. Lo trovo straordinario, perché è Photoshop prima di Photoshop. Mai la realtà è stata rappresentata così com’è, ce lo insegna questo episodio.
La pandemia dalla quale stiamo lentamente uscendo, che cosa ti ha insegnato?
Abbiamo avuto in generale tutti lezioni perentorie. Nel primo periodo nel mondo della cultura ci siamo mossi in base ai Dpcm e purtroppo abbiamo constatato che veniamo sempre dimenticati. Certamente, fa pensare che i centri commerciali siano aperti e i musei siano chiusi. Sono d’accordo sull’apertura dei primi, ma ci dovrebbe far arrabbiare la chiusura dei secondi. Con i miei collaboratori abbiamo creato l’acronimo “Dai poi cosa m’invento?” (da Dpcm, ndr) e subito dopo abbiamo cercato di cambiare prospettiva. È stato necessario reinventarsi mettendosi in relazione con gli altri, perché in fondo nessuno, anche il più bravo, è un’isola. In generale, il mondo culturale è stato costretto a digitalizzarsi, visto che era rimasto fermo ai primordi della comunicazione.
E a livello personale?
Che bisogna sempre sfoderare una grandissima pazienza, associata a una impetuosità delle proprie azioni, ma rimanendo clementi sui risultati. E che in una collettività, così come in un rapporto di coppia, è necessario sapersi rispettare per compartecipare al bene in base alle varie necessità.
Uno dei tuoi ultimi progetti si chiama “Smart Café”, con il quale coinvolgi personaggi illustri del mondo della cultura. Delle chiacchierate che fanno appassionare i giovani a un universo troppo spesso considerato “noioso”.
Sì, nel periodo del lockdown, in cui l’Italia e il mondo erano chiusi, in cui la cultura è stata messa ancor più alla berlina, ho pensato di tradurre un rito squisitamente italiano come la pausa caffè in una occasione di approfondimento e di intrattenimento culturale su Instagram con persone speciali. Una diretta di 15 minuti con direttori di musei, filosofi, poeti, fotografi ed uno psicanalista. Persone note e molto istituzionali si sono raccontare attraverso un canale social ad un pubblico estremamente giovane che si è sentito ispirato e sicuramente meno solo.
Sei famosa per essere la prima art sharer italiana e anche per il tuo stile: dalle montature di occhiali, agli abiti curatissimi. Ma che cos’è per te lo stile in una persona?
Ringrazio molto per avermi considerato famosa ed elegante. Cerco solo di trasporre all’esterno la mia personalità interiore che considero essere il mio autentico stile. Lo stile di una persona credo sia ciò che rende quell’individuo unico, diverso da qualsiasi altro. La mia attitudine a raccontare, a stratificare periodi storici, sensazioni da un lato ha portato ad un mio vestiario un po’ caricato e dall’altro alla creazione nel 2016 del concetto di Art Sharing e di Art sharer. La necessità di ricreare un file Rouge tra periodi storici e discipline cercando di raccontarle sui social divenendo una divulgatrice culturale un po’ moderna. Da allora tante persone utilizzano la parola art sharer e sono felice di aver innescato un effetto a catena virtuoso e creato di fatto una nuova professione.
Nonostante sia diffusissima, si parla invece poco della “bruttezza”. Quali sono gli aspetti del mondo dell’arte che proprio non ti piacciono?
Sono contenta di questa domanda, perché mi permette di citare un volume che ho amato di Umberto Eco che si intitola: “Storia della bruttezza”. Io sono una sostenitrice della bellezza sia ben chiaro, ma la bruttezza ha una attrattività a volte superiore. È torbida, è ambigua ed ha tinte più fosche. Non a caso l’umanità, ogni essere umano è ricco di ambivalenze e di dualità. Si ricerca sempre il The dark Side di qualcosa perché ci attrae. Per quanto riguarda ciò che non mi piace, non credo siano aspetti tanto diversi da quelli che può riscontrare un architetto, una insegnante, un commercialista nel proprio orizzonte di attesa. Detto questo, l’unico aspetto estremamente indisponete della cultura e dell’arte è che troppo spesso risultano entità autoreferenziali e chiuse. Ermeticamente radicate in convinzioni che non trovano riscontro nel presente e, come dico spesso, una presunzione di superiorità di appartenere ad una nicchia, che se mal gestita diventa oculo in un attimo.
È stato un 2020 funesto per l’arte, ma forse qualcosa di buono c’è stato. Tu in generale che cosa senti di salvare dell’anno appena trascorso?
Quest’anno ha scardinato molte convinzioni, molti preconcetti e pregiudizi legati al mondo digitale e quando si rompono gli equilibri si è già sulla buona strada per poter ridefinire nuovi confini. Ho apprezzato tantissimo l’inaspettato. Ho amato mostre straordinarie, dalle più istituzionali come quella di Raffaello alle Scuderie del Quirinale alle più contemporanee come quella di Nicola Samorì al MANN, lui è un genio vero. La mostra di Ren Hang al Centro Pecci di Prato oppure Casa Iosas curata da Francesco Vezzoli organizzata da Tommaso Calabro a Milano. Non può mancare “Aria” di Tomás Saraceno a Palazzo Strozzi a Firenze, la mostra Carousel di Paolo Ventura a Torino e Giulio Paolini da Massimo De Carlo. Ho adorato le condivisioni social del Museo Egizio di Torino e “Una vita in corsa” l’incontro con Letizia Battaglia (ancora disponibile in streaming) in occasione di Kum! Il festival di Ancona ideato da Massimo Recalcati. La mostra “Falce e Martello, tre modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe” di Enzo Mari alla galleria Milano ed i cavalli di Paladino. L’apertura di XNL a Piacenza e per finire il video sulle sculture calde di Remo Bianco (allievo di De Pisis) creato dalla fondazione e dalla curatrice dell’archivio Elisa Camesasca. I tour di Estetista Cinica e Touring Club che hanno dimostrato che l’arte e la cultura sono a portata di tutti nessuno escluso. E sì, anche la Ferragni agli Uffizi trovo che sia stato un punto importante di apertura e riflessione.
Ci sono mostre che sono state chiuse o rimandate e che potremo vedere nel 2021 che ti senti di segnalare?
Segnalo la mostra Studio Luce, Paolo Roversi. Al museo Mar di Ravenna, si configura come la più importante retrospettiva di un fotografo italiano riconosciuto in tutto il mondo ed autore dell’ultimo calendario Pirelli. Mi sento di segnalare “Lotto. L’inquietudine della realtà. Lo sguardo di Giovanni Frangi a Palazzo delle Paure di Lecco. E per il super contemporaneo alla G/ART/EN di Como, una personale di Johan Deckmann.
Quali sono a tuo avviso i musei più attivi, non solo dal punto di vista dell’offerta artista, ma anche sul versante della comunicazione?
Credo che si siano distinti il museo Egizio di Torino, il Mann di Napoli, Palazzo Strozzi e Gli Uffizi per quanto riguarda Tik Tok, in quest’ultimo caso necessiterebbe un approfondimento più ampio ed una dissertazione complessa.
Si parla sempre degli artisti dopo che, tra mille difficoltà, sono riusciti ad esplodere. Ti va di provare a fare una previsione su alcuni artisti che, secondo te, diventeranno importanti negli anni a venire?
Parlando di artisti del ‘900 penso che Mattia Moreni verrà grandemente riscoperto. Come del resto Gastone Novelli. Entrambi li adoro. Artisti contemporanei già affermati ma che secondo me si ritaglieranno un ruolo di tutto rispetto sono Edoardo Tresoldi e Johan Deckmann. Ultimamente ho scoperto le simpatiche rivisitazioni digitali di Sabine Pigalle. Una fotografa che apprezzo tantissimo invece è Justine Tjallinks.
Nel tuo impegno per la diffusione dell’arte lavori spesso con diversi brand. Quali sono quelli che hanno più a cuore (o interessi) a sostenere l’arte in Italia?
Quest’anno ho avuto il piacere di lavorare e di raccontare alcune attività di Sky Arte, che ha reso lo streaming gratuito durante la prima quarantena. Volvo Italia si è dimostrata molto attenta al super contemporaneo proponendo una serie di incontri che ho avuto il piacere di raccontare. Ci sono molte realtà anche nell’ambito del Financial Services interessate all’arte e alla cultura con cui ho collaborato. Non le cito perché rischierei di sembrare di parte e non lo trovo giusto.
Una frase infausta di un politico è rimasta tristemente famosa: “Con la cultura non si mangia”. Credi invece che nel nostro paese la cultura, l’arte, la bellezza in generale, possano diventare sempre più un’opportunità di lavoro?
Sì, sono fermamente convinta che cultura, l’arte e la bellezza siano destinate a divenire sempre di più una opportunità di lavoro sia diretto che indiretto. C’è urgenza di sistematizzare, ottimizzare e far dialogare molti aspetti che oggi invece vengono ancora trattati in modo troppo separato un esempio tra tutti: il turismo. Abbiamo bisogno di percorsi, di creare una rete virtuosa, tra comuni, province e regioni, in cui si possa valorizzare l’Italia istituendo degli itinerari più ampi. Certo la politica è fondamentale in questa trasformazione e valorizzazione. Non posso davvero immaginare motivazioni per cui forme d’arte di un tempo, conosciute e non, non possano continuare a vivere e ad esistere nell’immaginario di tutti, nella disponibilità di tanti grazie alle mostre ed occasioni di apertura ed approfondimento benché in taluni casi siano e rimangano proprietà di pochi. In tal senso il nostro è il tempo migliore per l’arte e il migliore dei tempi possibili; perché abbiamo accesso a luoghi che per secoli non sono stati accessibili e anzi deputati ad una ristrettissima cerchia di persone. Pensa alla Cappella Sistina, nessuno a parte i papi e cardinali potevano visitarla. Oggi non so quanti milioni di persone si registrano ogni anno acquistando il biglietto, guardando in rete le immagini oppure su Instagram dove l’hashtag italiano ha almeno 40mila post. Questa riflessione non può altro che condurre alla concreta consapevolezza che di cultura ci si nutre, ed a mio avviso, significa molto di più che mangiare. Però consiglio il libro della professoressa Dubini, “Con la cultura non si mangia falso!”.
Hai mai pensato alla politica? Se per caso ti proponessero di diventare assessore alla cultura di Milano, o ministro della cultura a livello nazionale, accetteresti?
Bè, che la politica piaccia oppure no rappresenta molto per non dire tutto per tutti. Uno degli esami più belli dell’università è stato Storia delle dottrine politiche in cui si spaziava dal concetto di bene comune al concetto di felicità individuale inteso come valore e sancito in alcune Costituzioni e nella Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti. Tutto è una questione politica anche i dettagli più apparentemente frivoli e liberi da condizionamenti. Come la minigonna creata negli anni ‘60 da Mary Quant, o la felpa di Salvini, oppure i calzini del primo ministro canadese Justin Trudeau. Non ho tuttavia mai avuto ambizioni in tal senso, anche se non escludo niente.
Immagino che qualche proposta già l’avresti…
Parlando in gergo automobilistico, si potrebbe applicare alla cultura il consolidatissimo protocollo "one best way” per diffonderla in tutti gli strati sociali tramite un'ideale catena di montaggio virtuosa dalla quale possa fuoriuscire un prodotto ed un marchio di fabbrica, “l’italianità,” riconosciuto in tutto il mondo. Un po' come la Ferrari, esclusiva, unica, irraggiungibile proprio come un’opera d’arte. Sapete che il marchio Ferrari è più importante di Google? Per farlo, però, serve competenza, una profonda preparazione ed esperienza sul campo maturata nel tempo. Elementi fondamentali uniti ad una visione d’insieme che a ventisette anni, forse, è molto difficile avere. Infatti, in futuro spero di capirne più profondamente in tal senso.