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Cosa ci insegnano Enzo Jannacci
e una generazione da invidiare

  • di Domenico Agrizzi Domenico Agrizzi

12 settembre 2023

Cosa ci insegnano Enzo Jannacci e una generazione da invidiare
Dopo l’anteprima al Festival di Venezia, dall’11 al 13 settembre sarà al cinema il documentario di Giorgio Verdelli, “Enzo Jannacci – Vengo anch’io”, in cui si ripercorre la carriera del cantautore milanese. Sono in molti a portare la testimonianza della loro relazione con Jannacci: il figlio Paolo, Diego Abatantuono, Cochi Ponzoni, Roberto Vecchioni, Dori Ghezzi e persino J-Ax. Chi non ha vissuto quella generazione e gli anni della Milano del “Derby Club” dovrebbe vederlo. Chi invece c’era potrà rinfrescarsi la memoria. Perché Jannacci ci ha insegnato molto. L’arte e la musica in Italia non sarebbero state le stesse senza di lui: il mattatore di un passato che vorremmo rimanesse presente

di Domenico Agrizzi Domenico Agrizzi

Più di Lucio Dalla e di Fabrizio De André. All’inizio del documentario Enzo Jannacci – Vengo anch’io, diretto da Giorgio Verdelli, Roberto Vecchioni lo definisce come il vero e unico genio della musica italiana. Enzo Jannacci era un cantautore inimitabile, che sapeva partire dal noto per finire nell’inaspettato, sconvolgendo ciò che di ordinario apparteneva alla canzone. Lo faceva utilizzando un linguaggio semplice e popolare, come le tradizioni a cui si ispirava per i suoi testi. A lui bastavano poche parole, “le scarpe da tennis”, per identificare un’intera fascia sociale, evitando parole auliche e senza costruire impalcature inutili. A quelle ci pensano i critici: “Quelli che” credono di dover spiegare all’autore il significato della sua opera. Jannacci andava dritto al punto, con il testo e con il corpo. La sua espressività e la sua immediatezza gli permettevano di raggiungere ogni tipo di spettatore. Non sempre di facile comprensione, comunque. Più che altro per la sua parlata milanese, la stessa che mandava nel panico Francesco Guccini durante le telefonate. Un velo di incomprensibilità che gli permetteva di restare nel personaggio. Proprio tutto non lo poteva dire neanche lui, come un cuoco che tiene per sé l’ingrediente segreto. Memorabili i duetti con Giorgio Gaber, che, come ricorda il comico Paolo Rossi, era l’esatto suo opposto: il rigore contro la spontaneità, la ricerca della perfezione contro l’ammissione dell’incompletezza. Come quella volta, racconta ancora Rossi, che Jannacci ebbe un vuoto di memoria durante una rappresentazione di Aspettando Godot. Gaber nel backstage era disperato, mentre Jannacci commentò: “Dai Giorgio, meglio a teatro che in sala operatoria”. Perché, in effetti, Jannacci poteva anche diventare un dottore. Era laureato in medicina e aveva persino studiato alla Columbia University. Iconico il “siringone di Campari” somministrato a Diego Abatantuono prima di uno spettacolo per combattere la febbre. Sono in molti a parlare di Jannacci. Non solo per le sue qualità artistiche ma anche per la sua capacità di “talent scout”: la scena musicale milanese, infatti, si era raccolta attorno a lui nell’esperienza al Derby Club. Massimo Boldi parla di tutte quelle serate che finivano la mattina dopo. Notti passate a vedere film, improvvisare canzoni e sceneggiare testi.

Senza Jannacci la musica e il teatro non sarebbero gli stessi. Collaborò anche con Dario Fo, in un duetto che portava al limite la forza della parola tramite l'esitazione, il balbettio e il dialetto. La sua carriera fu come un viaggio in un tram milanese, mezzo emblematico della città: la partenza avveniva in un luogo preciso mentre l’arrivo era da tutt’altra parte. Nel tragitto, invece, passavano persone e situazioni di ogni tipo. Quelli che non hanno vissuto quegli anni devono vedere Enzo Jannacci – Vengo anch’io. Per capire Milano e l’anima di un artista che tutti hanno amato, come amico e come maestro. “Mi manca per la sua energia e per la sua voce che faceva vibrare i muri. Mi manca ridere con lui dei guai della vita”, dice Paolo Jannacci. La Lettera da lontano era diretta anche a lui, scritta da chi ha vissuto accompagnato “dalla sua dignità, dalla sua morte, dalle sue emozioni”. La prima e l’ultima cosa erano ciò che di Jannacci l’Italia si porta ancora dentro. La morte, invece, è l’inevitabile fine che lo ha consegnato alla storia. Il completamento che la sua arte non poteva avere. Quella doveva rimanere aperta.

Enzo e Paolo Jannacci
Enzo Jannacci con suo figlio Paolo

Una lettera la scrisse anche a Vasco Rossi, che improvvisò con lui un duetto in televisione. Cantarono Vita spericolata in un’esibizione che, con tutte le sue imperfezioni, emanava verità. La stessa verità che Jannacci possedeva in maniera assoluta. Il documentario di Giorgio Verdelli parla di Milano, dell'Italia e di arte. Lo fa attraverso le voci di coloro che hanno fatto parte di quella generazione così ricca di talento. Figure diverse che divennero grandi anche grazie alla loro complicità. Chi non c'era in quegli anni vada al cinema: assisterà alle immagini di un tempo che invidieranno. Anni che furono ma che meritano di rimanere presenti.

Giorgio Gaber e Enzo Jannacci
Giorgio Gaber e Enzo Jannacci

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