io amo questa nostra vita mite
e quei colori e quei versi, e tutta
infinita grandezza e la pazienza
del nulla attorno a queste sillabe.
(da Cuore, ora pubblicato da Interno Poesia)
Sarebbe riduttivo definire una biografia il racconto di una vita, anche se dopotutto lo è. Piuttosto, potremmo dire che la biografia è la storia di tante vite in una, gli amici, gli affetti, le sconfitte, i dilemmi sociali, la Storia. Per scrivere una biografia si deve sapere un po’ di tutto e si deve accettare di non poter sapere tutto in modo specialistico. La sfida della biografia, dunque, non è il semplice inventario di questo o altro che finisce in bibliografia. Uno studio tecnico su un luogo, qualche nozione di urbanistica, due o tre fonti storiche. Scrivere della vita di qualcuno è semmai coglierne la voce, i movimenti, i sentimenti. E la differenza con un romanzo, in definita, è così sottile da apparire quasi superflua. Tanto che qualcuno può facilmente sostenere di conoscere meglio la Pavlova di Resurrezione di Tolstoj che una sua lontana zia. Va letto così Vita e morte di un poeta di Nicola Bultrini (Fazi, 2025), il romanzo della vita di Beppe Salvia.
IBeppe Salvia, di cui oggi si torna a parlare, è in realtà un poeta completamente fuori fuoco rispetto alla società dei letterati di oggi. Lui voleva scrivere un libro e intitolarlo Cuore, per reinventare questo termine che ai tempi era ormai considerato così retorico. E per capire la portata di questo progetto, basti pensare che oggi, per non cadere appunto nel gioco facile del “cuore” in poesia, il cuore stesso è diventato un tabù. Allora quanto sarebbe servito avere quel Cuore pensato da Beppe Salvia (e oggi pubblicato in modo fedele al progetto originario da Interno Poesia), quanto poeta e uomo era Beppe Salvia, che non ha rinunciato a esso ma lo ha, come solo i poeti, ricostruito da zero. La vita, a dei livelli forse incomprensibili, era la sua Chiesa di San Damiano. E sempre, leggendo Bultrini, si comprende come egli abbia cercato di ricostruirla.

Vita e morte di un poeta è la storia di quest’opera incarnata che fu Beppe Salvia, morto troppo presto, il poeta che ha scelto, giovanissimo, di gettare il suo corpo dalla finestra del bagno, dopo una litigata per futili motivi con la madre, l’ennesima. La scena, come ricostruita da Bultrini, è agghiacciante: “Il 6 aprile, sabato santo, c’era il sole, era una tiepida giornata di primavera. La mattina Beppe e la madre litigarono di nuovo, sempre per futili ragioni, cosa preparare per il pranzo e cose del genere. Poi Beppe sembrò quietarsi, e si mise a leggere un libro. In casa c’era silenzio, finalmente un po’ di pace. La madre era in cucina. Ma a un certo punto avvertì come un vuoto improvviso, uno spostamento dell’aria. La mamma di Beppe smise di trafficare ai fornelli e senza voltarsi lo chiamò. Beppe non rispose. Lo chiamò ancora. Silenzio. Allora dalla cucina andò in corridoio, stavolta senza parlare, allarmata, tutti i sensi all’erta. Ecco da dove veniva quella sensazione di vuoto, la porta del bagno era socchiusa e la finestra del bagno spalancata, e da fuori arrivava un vago fruscio. Entrava aria. L’istinto fu di affacciarsi, guardare davanti, guardare giù.” E il contrasto tra Beppe e la sua epoca è divorante: la grande invernata dell’85, la registrazione di We are the world, l’Urss a Gorbačëv. Dopo questo elenco Bultrini aggiunge una frase a inizio del nuovo paragrafo: “E Beppe era un fantasma”.
Un romanzo straziante, una biografia rigorosa, dove non c’è retorica. Che lui fosse un fantasma, che lui avesse le allucinazioni, che la madre lo abbia cercato, che il fratello, gli amici, si siano passati la parola tragica, del lutto, lasciando messaggi in segreteria, smettendo di lavorare o altro, è ciò che i protagonisti di questa storia hanno raccontato a Bultrini, che oltre a essere poeta ha scritto già saggi letterari e storici, e ha scelto di chiedere a tutti i testimoni viventi della vita bruciante di Beppe Salvia di raccontargli “l’apprendistato alla bellezza e all’amore”. Bello allora che il libro inizi con un aneddoto: Beppe salta sul terrazzo di Antonio Capaccio e gli amici e il fratello, che lo vedono da dentro la stanza, per un attimo credono si sia buttato di sotto. “Per noi, più semplicemente, era ogni volta una bravata di Beppe. Inutile ragionarci tanto.” Poi quel salto c’è stato, nessuno però era lì a sbirciare, a vedere il suo volo. Un po’ com’è sempre stata ed è ancora (in un ambiente fatto di vetrine e paillettes) la sua poesia.
