Siciliana, schiva, incandescente, Veronica Tomassini scrive da Siracusa come se ogni frase potesse salvarla o condannarla. La chiamano “scrittrice di culto”, ma è solo perché non sanno come etichettarla. Troppo viva per stare nei manuali, troppo vera per i salotti romani. Noi di MOW abbiamo avuto l'onore di ispitare due sue rubriche, Fuffa guru e Deinfluencer, e quando esce fisicamente dal suo "eremitaggio" è sempre un evento. Così vi segnaliamo che a giugno 2025 è la prima ospite della residenza d’artista di Transeuropa, casa editrice storica che ha deciso di scommettere sul rischio: un mese di lavoro, incontri pubblici, una lettura scenica e un laboratorio che promette di far saltare il banco della letteratura. Il tutto a Massa-Carrara grazie al sostegno della Scuola Colombre, diretta da Paolo Bianchi, realtà milanese dedicata alla formazione narrativa e all’innovazione letteraria, oltre a Giulio Milani di Transeuropa. Il cuore della residenza sarà però un testo inedito: un pamphlet sulla poetica di Veronica, e sul funerale in atto della scrittura contemporanea. Parole dure, posizioni nette, stile come arma bianca. Il nostro consiglio? Preparatevi a leggere qualcosa che non somiglia a niente e a nessuno. Ecco in anteprima un estratto da "Il roveto ardente", un estratto del saggio che vedrà la luce nei prossimi mesi e spiega da dove scaturisce la sua poetica.

"Il roveto ardente"
Stamane camminando lungamente sul viale della stazione, a Massa, luogo in cui questo pamphlet sta affiorando alla stregua di un ciclamino timido eppur fecondo di intuizioni, verificavo, come fosse un brano esclusivo di verità, che la vita è davvero un esercizio adatto ad individui che hanno sviluppato una naturale abilità al qualunquismo o ragionevole sconsideratezza, posti a scudo, e valorosamente dedicata a individui gettati concretamente nei giorni, quand’anche fossero abbastanza volgari, motivassero risate senza gaudio, senza una comprensibile contentezza, quand’anche il fatto necessitasse la capacità di ingoiare tonnellate di stoppa. Certe trattative umane, la scaltrezza, non so come altro definirla, la possibilità di indossare la pusillanimità in ordine di una manciata di opportunismi, o il desolante grigiore di un travet, forse sono i tratti distintivi di chi, in una ipotetica estinzione della razza, sarebbe in grado di sopravvivere. I salvati: sono migliori, i più forti davvero? O i sommersi hanno semplicemente rifiutato ogni cosiddetta trattativa? Cosa c’entra tutto questo con la scrittura? C’entra nel momento in cui la scrittura è una sospensione, momentanea perdurante, della pena, il castigo di sceglierlo, poterlo fare: qui o là. Vivi o scrivi. Di solito non si fanno entrambe le cose.
Scrivo perché ho vissuto?
O è l’esatto contrario? Temo che lo sia, l’esatto contrario. Non sapendo fare altro, ho vissuto male, ma ho vissuto affinché ne potessi scrivere. E allora mi domando perché una tale urgenza: vivere per scriverne?
Qual è la ragione profonda di dover esistere in luogo della parola. Cosa restituisce nel gesto finale. Il gesto in sé: cosa traduce, promette, cosa?
Talvolta mi raggiunge una specie di tregua, i pensieri diventano pacifici, quasi innocui, il dolore, sottile, nascosto, desto comunque all’occorrenza senza che per questo si presenti con decisione e mi dica cosa voglia. La tregua mi spiega che può darsi io non sia fatta per questo mondo, liquidiamo la questione frugalmente, con una sorta di slogan: non sei fatta per questo mondo. C’è una componente spirituale che si esprime meglio dell’altra, l’altra è quella finita, da capo a piedi, quella che ha un confine, che non può ancora sganciarsi dal corpo, e tenersi soltanto l’aurora gloriosa che irradierà quando finirà il viaggio. Sono precipuamente spirituale, et voilà. O molto più modestamente: disincarnata. Per questo vivo male, un po’ come la Bess de Le onde del destino. Allora scrivo. La scrittura mi ha condotto, sentieri laterali, di solito, o aspri come certi gialli e verdi nelle tele di Van Gogh. Forcelle infernali. Finivo in fornaci, non nelle stagioni della vita, non so cosa siano le stagioni della vita se non una successione di tormente e buriane. Le poche schiarite mi hanno permesso di scriverne. O è anche capitato che ne abbia scritto mentre bruciavo nella fornace. All’apice di un sacrificio non espressamente richiesto, non in via formale. Un sacrificio consumato al termine del quale trovavo una parola. O la parola. La parola che regge una pagina per intero. Le parole come piccoli lumi per indicare il sentiero erto e inesorabile.
Le visioni soltanto da qualche anno si sono rivelate, accompagnando una narrazione che è diventata verticale, tende alle altezze, le desidera. Non mi è ancora chiaro se mi competono o peggio se siano meritate. Il destino lo è stato? Il destino non è nostro. È il compito. Eseguirlo. Non abbiamo altro rimedio al destino che saperlo non nostro, ma affidato.
La preminenza delle cose raccontate. Ecco, sì. Man mano la mia vita si conformava all’argomento taciuto, il segreto regesto degli avvenimenti, la raffinatezza con cui mi sarei appressata a geometrizzarli. Le parole sarebbero state raccolte, frutti edenici, rarità, renderle una per una precisamente episodi aurei, cune in cui lasciar riposare la nostra redenzione. Continua redenzione.
Credo che l’aristocrazia della parola sconfini in una prosa convulsa, allora si è a un passo dal sublime, se non proprio di un anticipo di eternità. La prosa convulsa e delirante della Saison en Enfer di Rimbaud segna la fine di tutto, il sacrificio estremo o all’incirca, il poeta abbandona i versi e l’uomo. E invece la scrittura si accende, brucia brucia brucia.
Nella privazione severa, la scrittura trionfa, il talento si rinsalda a tenaglie gelose di insondabile creatività e per taluni misteriosa origine. L’origine guarda in su, i sette cieli di cristallo, e i periodi diventano deliri.
Il delirio è la visione letteraria. Cinicamente è la pagina riuscita.
(brano tratto dal saggio memoir Il roveto ardente, che Transeuropa edizione pubblicherà entro il nuovo anno).
