Dave Chappelle che fa la caricatura di se stesso è un Dave Chappelle al quadrato, cattivissimo e irresistibile. E infatti lo stanno massacrando. È appena uscito su Netflix The Dreamer e dalle prime battute appare chiaro che al confronto il tanto atteso Ricky Gervais di Armageddon è un’orsolina (senza nulla togliere alle orsoline che sanno riservare sorprese). Premettiamo: c’è gente rozza a cui Dave Chappelle piace e molto? Senz’altro. La maggioranza dei suoi fan potrebbe anche darsi. Ma c’è qualcosa di “buono” in questa comicità così cattiva? Tanto. Roba da scriverci una mezza dozzina di saggi, ma chiunque si cimenterà dovrà fare i conti con The Dreamer, dove Chappelle parte con un gancio destro alla mascella dei trans: “Ho conosciuto il mio mito, Jim Carrey, mentre interpretava Andy Kaufman. Non usciva mai dalla parte. Tutti lo dovevano chiamare Andy anche se non stava girando. Lo guardavo e pensavo: è indubbiamente Jim Carrey. Però l’ho dovuto chiamare Andy per tutto il pomeriggio. Ho raccontato questa storia per dire: ecco come i trans mi fanno sentire” e quindi dice: “Basta, non me la prenderò più con i trans, non ne vale la pena […] da oggi me la prenderò con i portatori di handicap, sono meno organizzati e mi piace prendermela con i più deboli” e imita un portatore di handicap tra il pubblico, incazzatissimo e deluso, che dice al vicino: “Ma io ero venuto qui per sentirlo parlare male dei trans”. Ed eravamo appena ai primi cinque minuti di spettacolo. È qui che comprendi che Chappelle sta prendendo in giro la propria cattiveria, dato che i detrattori non riescono a capirla. O è qui che non lo comprendi. Il resto dello spettacolo sta tutto in questa chiave di lettura. Come se Chappelle avesse detto: “Ma davvero pensate che io sia cattivo? Ok. Vi faccio vedere la cattiveria”. Da questo momento in poi sai che ci sarà qualcuno che non capirà questa “finzione” (non cita Kaufman a caso, il maestro della finzione e del tiro mancino), sai che ci sarà qualcuno che davvero crederà a questa cattiveria. È un doppio spettacolo al prezzo di uno: quello sul palco e le reazioni del pubblico. Più il bonus: quello che scriveranno i giornali. Oltre al talento, al mestiere, oltre alla decennale battaglia che Chappelle porta avanti contro la cultura “woke”, della quale conosce tutti gli anfratti e le storture, ci vuole tanta autoironia, ma tanta, per spiccare questo triplo carpiato a piscina vuota, autoironia che certo non è una caratteristica della cultura woke. Che infatti sta impazzendo di rabbia. Sì, non è obbligatorio comprendere, o farsi piacere, questo avvitamento anche un po’ isterico (ma una certa isteria è parte costitutiva dell’ironia, come spiega il critico letterario James Wood in un saggio su Denti Bianchi di Zadie Smith coniando il termine “realismo isterico”) che porta Chappelle a costruire sessanta minuti di esilarante cattiveria anche contro se stesso (il lascito ereditario alla propria famiglia). Non è obbligatorio ma è senz’altro consigliabile. Se non si comprende questo, che abbiamo chiamato “avvitamento”, si è destinati a indignarsi senza capire o – altrettanto pernicioso – ridere senza capire. Non si ride “con” le battute di Chappelle, si ride “delle” sue battute.
È una differenza non di poco conto: io non rivolgerei neanche la parola a un tizio al quale fosse piaciuto The Dreamer senza averne capito, appunto, l’avvitamento, il triplo salto carpiato. Chappelle (come certo anche Ricky Gervais e come tanti comedian) ha un nemico: la cattiveria woke che dietro le belle e pulite parole nasconde una sorta di nazismo delatorio e un qual certo desiderio di epurazione: quale regime non è nato sotto i migliori sentimenti e al suono di parole confortanti? Restringere il campo della libertà di espressione, come vuole la cancel culture, di fatto ti costringe a parlare bene di chiunque: è quello il confine, o il cappio. Di certo Chappelle non sta andando in giro a dire che bisogna ridere dei trans, forse un po’ di Bru… di Caitlyn Jenner, membro del partito repubblicano in epoca di ascesa trumpiana. Di certo David Chappelle non sta dicendo che bisogna andare in giro a ridere dei portatori di handicap, forse un po’ di Madison Cawthorn, membro del partito repubblicano. Dice: perché non attaccarli nel merito e non nel personale? Perché la cultura woke prende il personale e lo assurge a merito, lo rende di fatto esente da qualsiasi critica (e per un afroamericano non potere criticare un rappresentante dei repubblicani in epoca trumpiana è dura). Ovviamente, ad attaccare Dave Chappelle, ci pensano non i repubblicani, ma i giornali democrat e liberal, che più gli dicono cosa non si può dire e più lui lo dice. Lo ha detto esplicitamente, in uno spettacolo di qualche anno fa: “Io ho un nemico in agguato, che mi spia, che pensa ‘passeranno anche dieci o quindici anni ma io prima o poi te la farò pagare’ e questo nemico siete voi, il pubblico, perché io sono una celebrità’, per poi raccontare di come Kevin Hart fu fatto fuori dalla conduzione della notte degli Oscar per un tweet di anni prima: “Se scoprissi che mio figlio ha tendenze omosessuali prenderei la casa delle bambole che gli ho regalato e gliela spaccherei sulla testa” – che evidentemente, in tanti, hanno preso come un’affermazione seria. Il che fa ridere ancora più della battuta. Se non fosse un problema. Anche Chiara Valerio, quando sostiene la tesi che “tutte le donne vive sono vive per caso o per fortuna”, fa ridere, se non fosse che la dice seriamente. Sembrano woke, sono invece la folla inferocita che abbatte le statue: statue costruite sulla stessa “serietà” che ora le vuole abbattere. Noi europei usiamo un termine per tutto questo (in America lo usano poco): giacobinismo. Basta leggere il tono delle critiche: nessuno che entri nel tema. Sono critiche moralistiche. Variety: “L’ossessione di Chappelle per le persone trans continua”. Rolling Stone USA: “The Dreamer di Dave Chappelle dimostra che è ossessionato dalle persone trans”. Sembra davvero che Rolling Stone e Variety siano ossessionati dalle persone trans molto più che Chappelle. Saranno due testate prestigiose e storiche, ma il “joke” (con tutte le sue sfumature di significato) iniziale mica l’hanno capito. Reagiscono come sanno fare: d’istinto, di pancia. Senza intelligenza: “Dagli a Chappelle!”
Ma in The Dreamer ci sono anche le battute sui neri, sui bianchi, sulla moglie asiatica (come riesce a sbloccarle l’iPhone in un momento di gelosia vale cinquanta spettacoli, come si dice, “safe space”). Tre mesi dopo lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock, Dave Chappelle è stato assalito sul palco da un tizio armato di pistola. Si scoprirà dopo che la pistola era finta: dalla canna usciva un coltello (o come dice Chappelle: “Era un coltello che si identificava come pistola”). Era un senzatetto bisessuale offeso dalle battute sui senzatetto e sui bisessuali. I giornali woke, racconta sul palco, scrissero più o meno che Chappelle se l’era cercata. Quanta violenza c’è nella cancel culture? Le parole feriranno più di una spada, ma anche i coltelli che si identificano come pistole non scherzano. “The Dreamer” è uno spettacolo perfetto? Assolutamente no. Ma non si può negare che Chapelle si sia finalmente tolto quella maschera da “maestro” che aveva reso i suoi ultimi spettacoli eccessivamente fermi e pensosi. È tornato il discolaccio di venti anni fa. Un aggettivo mi ha colpito, in una delle critiche: “puerile”. Chi lo ha scritto lo intendeva, ovviamente, come un insulto. The Dreamer è uno spettacolo puerile? Forse. Ma non sono i bambini a essere i più cattivi? Ma non sono sempre loro a dire che il re è nudo? Ma il fulcro dello spettacolo, l’ho già detto, è “entrarci” o no, comprendere che si tratta di uno Chappelle al quadrato, di uno Chappelle che canzona se stesso, di uno Chappelle che dice: “Ma davvero pensate che io sia cattivo? Ok. Ora vi faccio vedere la cattiveria”. In un passo racconta che nell’ambiente dei comici viene preso come un autore pigro, non per la quantità della sua produzione, ma perché quando, di fronte a un pubblico di persone lui fa una battuta e ridono solo in tre o quattro, lui dice: “Per me è abbastanza”. Sono quelli che capiscono e scelgono di stare al gioco, al “joke”. Gli altri sono spettatori rozzi o intellettuali woke. Al momento Gervais e Chapelle sono primo e secondo su Netflix America. Gervais ha twittato: “Dovremmo condurre insieme la notte degli Oscar”.
P.s. C’è un momento altissimo, nello spettacolo. Perché sembra “debole”. Tutt’altro. Chappelle la introduce come la battuta più bella mai sentita. È una battuta di Chris Rock, la prima battuta, a distanza di mesi, che Rock dice sulla faccenda dello schiaffone che gli diede Will Smith durante la notte degli Oscar. Il pubblico resta deluso. La battuta non lo fa ridere. Chris Rock dice: “Io non farò la vittima”. Bisogna spiegarlo che è una battuta a favore di tutte quelle minoranze che si sentono protette dalla cultura woke che invece toglie loro la possibilità di non sentirsi vittime? Cosa c’è di meglio di un “joke”, per non fare sentire nessuno una vittima? “Io non farò la vittima”. Ma è una delle più belle battute di sempre. Per chi la capisce. Certo, in una Italia dove anche chi non è vittima sostiene di esserlo però “in potenza” e di non esserlo “per caso o per fortuna” è dura capire o accettare Dave Chappelle.