Sembrava fosse finita e invece è appena iniziata. Quest’anno Più Libri Più Liberi è diventata più di una fiera culturale. È un simbolo e l’affaire Caffo, di cui vi abbiamo parlato qui, non è stato altro che l’espediente affinché una rivolta culturale stavolta detonasse. Si tratta di boicottare la Fiera? Non esattamente. Ciò che viene messo in atto è piuttosto una forma di disobbedienza civile che, anche grazie alle polemiche di questi giorni, potrebbe avere una risonanza inaspettata e, per quello che ci riguarda, legittima. Si tratta di una risposta seria non tanto alla direzione di quest’anno, ma alla struttura stessa della fiera che ormai da anni risulta essere tra le più costose della filiera e anche tra le più contraddittorie, poiché non si oppone alla “logica iperproduttiva” che soffoca proprio quel tipo di editoria, piccola e media, che vorrebbe rappresentare. Allora non poteva esserci nessuna risposta migliore di questa:
Il comunicato del gruppo di editori indipendenti che non parteciperà a Più Libri Più Liberi
Che significa, nel 2024, ‘Piccola e media editoria’?
Ce lo chiediamo, consapevoli forse di far parte proprio di questa categoria, che tuttavia viene esposta in una manifestazione con cui crediamo di non avere niente a che fare.
Piccola e media editoria, soprattutto per chi legge, è una categoria che si presta a innumerevoli svolte retoriche: non è soggetta a logiche massimaliste di mercato, di conseguenza è più attenta alla qualità: tutte idee non solo vuote, ma false. Infatti per l’Associazione Italiana degli Editori ‘Piccola e media editoria’ è, semplicemente, una categoria di fatturato: secondo il regolamento della fiera Più Libri Più Liberi, che si definisce ‘Della piccola e media editoria’, se l’azienda fattura meno di 10.000.000 l’anno (sì, dieci milioni all’anno), è media o piccola. Questi i requisiti per partecipare. Va da sé che nella categoria, già posta in questa forma, rientra un po’ di tutto.
Alla classe così formata viene richiesto, tuttavia, al contrario di quanto si pensi, di assomigliare alla grande editoria – che, abbiamo detto, fattura sopra i dieci milioni all’anno, ma le aziende editoriali che fatturano sopra questa cifra, nel 2024, sono quasi tutte fuse tra loro in grandi gruppi editoriali. Sostanzialmente, ricapitolando, esiste un’editoria che guadagna sotto i dieci milioni all’anno, e poi esistono i grandi gruppi editoriali. Alla prima categoria (in cui rientra chi fattura dieci euro all’anno come chi nove milioni) viene richiesto di comportarsi come i grandi gruppi editoriali: vale a dire, viene richiesto di produrre più libri possibile, che è esattamente quello che fanno i grandi gruppi. Perché succede questo? Per un complesso meccanismo legato alle forniture, volto a far emergere il titolo che vende davvero molto, noto a molti come ‘Best seller’.
Per garantire un rifornimento costante e un’esposizione abbondante nelle librerie, il meccanismo inaugurato decenni orsono e ancora in vigore tal quale ad allora porta a fornire libri in continuazione, libri che poi potranno essere resi, e che allora per sopperire al disavanzo tra la loro possibile mancata vendita dovranno essere sostituiti con nuovi titoli. In pratica, non si va mai in debito, a patto di produrre sempre. È, a suo modo, uno schema Ponzi. Da Wikipedia:
- Fase A. Al potenziale cliente viene promesso un investimento con rendimenti superiori ai tassi di mercato, in tempi ravvicinati.
- Fase B. Dopo poco tempo viene restituita parte o l’intera somma investita, facendo credere che il sistema funzioni veramente.
- Fase C. Si sparge la voce dell'investimento molto redditizio; altri clienti cadono nella rete. Si continuano a pagare gli interessi con i soldi via via incassati (la finanziaria ha capitale sociale zero, ma gli investitori non lo sanno).
- Fase D. Lo schema si interrompe quando le richieste di rimborso superano i nuovi versamenti.
Lo schema di Ponzi permette a chi comincia la catena e ai primi coinvolti di ottenere alti ritorni economici a breve termine, ma richiede continuamente nuove vittime disposte a pagare le quote. I guadagni derivano infatti esclusivamente dalle quote pagate dai nuovi investitori e non da attività produttive o finanziarie. Il sistema è naturalmente destinato a terminare con perdite per la maggior parte dei partecipanti, perché i soldi "investiti" non danno alcuna vera rendita né interesse, essendo semplicemente incamerati dai primi coinvolti nello schema che li useranno inizialmente per rispettare le promesse.
La differenza è che il meccanismo editoriale della resa garantisce da un lato un rifornimento costante, e dall’altro la possibilità di generare profitto anche dalla non-vendita dei libri... semplicemente, trasportandoli.
Infatti chi è che davvero guadagna nella filiera del libro? Le aziende che si occupano di stoccarli e di distribuirli, ovviamente non gratuitamente, per conto delle case editrici, che siano piccole o medie o gigantesche (Il servizio guadagna con percentuali sulle vendite delle case editrici, e non si tratta di piccole percentuali: nella torta della redistribuzione dei guadagni della filiera, comprendendo la percentuale che va ai rivenditori, ammonta a circa il 60%).
Abbiamo detto che la distribuzione colpisce l’editoria di ogni ordine e grandezza, ma a chi appartengono le distribuzioni di libri in Italia? Ai tre grandi gruppi editoriali (citiamoli: Mondadori, Giunti, ma soprattutto Feltrinelli-Messaggerie, o MeF, che detiene da solo la maggior parte della distribuzione). Ricapitoliamo di nuovo: la distribuzione che genera il meccanismo per cui c’è da produrre costantemente nuovi libri appartiene ai grandi gruppi editoriali, ogni casa editrice che voglia avere una distribuzione deve adeguarsi dunque al meccanismo deciso e gestito dai grandi gruppi editoriali.
Dove sta l’idea di ‘qualità’, così generosamente elargita nella retorica della piccola editoria, in tutto questo? Non c’è, e anche per altre ragioni. Altre retoriche si sono accumulate nel tempo dietro alla necessità di produrre più libri, prima fra tutte quella della ‘bibliodiversità’, ovvero che la diversità fra i libri sia un tesoro, e che sostanzialmente qualsiasi libro prodotto è bello solo perché, ecco, è un libro. Ma questo meccanismo è ciò che porta invece a generare quello che nuoce principalmente a chi vuole leggere, ovvero una sovrapproduzione di titoli in cui è impossibile districarsi.
Forniamo dati molto approssimativi: l’ultima indagine Istat del 2022 ci dice che in Italia si producono più di 80mila titoli nuovi all’anno. Più di seimila titoli al mese. Più di millecinquecento titoli a settimana. Più di duecento titoli al giorno. Circa dieci titoli all’ora. Pur cercando di sfoltire il dato da tutte le pubblicazioni che vengono prodotte per motivi diversi dalla vendita in libreria (quotidiani, settimanali, altri strani oggetti che comunque ricadono nell’unico, enorme e poco specifico codice di settore che fa capo all’editoria), rimane una cifra comunque difficilmente gestibile, perfino solo idealmente, e si capirà la difficoltà delle librerie di far fronte all’orda di novità e a chi legge di capire cosa può scegliere. E l’idea di ‘bibliodiversità’, pur buona, perché ci dà la percezione di diversificare la produzione rispetto a un possibile monopolio, non fa che giustificare quel monopolio, di cui la Piccola e media editoria è serbatoio pieno e costante. Perché se i gruppi editoriali producono molto, le piccole e medie case editrici, che producono comunque più di quanto potrebbero, sono tantissime, e finiscono per rappresentare un enorme serbatoio per la distribuzione. E a loro va il beneficio della ‘bibliodiversità’: devono produrre tanti libri diversi, perché è un bene.
E qui arriviamo alla sedicente ‘fiera della piccola e media editoria’, organizzata a Roma, all’Eur, dall’Associazione Italiana degli Editori: si chiama Più Libri Più Liberi. Più libri! Proprio quando l’intossicazione del mercato è data proprio dai troppi libri. Questo è il primo passo per capire che ‘piccola e media editoria’ non è che una categoria che deve servire all’incremento di titoli. E per capire che la stessa Associazione Italiana degli Editori o non è consapevole della tossicità della sovrapproduzione libraria o ne è consapevole e desidera incoraggiarla.
Una logica iperproduttiva che si riflette anche nella logica della proposta culturale della fiera, diventata un casellario da riempire in modo quasi indiscriminato e disattento (più di settecento eventi! gridano i comunicati), con pochi eventi curati da una direzione artistica (che spesso non guarda agli editori presenti in fiera ma ai grandi nomi di richiamo, innestando l’altrettanto tossico meccanismo che solo il nome richiama gente) e molti buttati via in tempi e spazi morti. E la brutta vicenda degli ultimi giorni si mostra figlia di una logica di arroganza e disattenzione: se ogni cosa vale tutto allora non vale nulla, e la memoria di una giovane uccisa si può accostare senza problemi a un garantismo dovuto, ma certo inopportuno.
Ecco, noi non vogliamo questo, e vorremmo dire cosa può essere la piccola e media editoria.
La piccola e media editoria può essere proprio quella che si permette di produrre di meno: non bibliodiversità, ma probabilmente bibliomoderazione. Del resto, il mestiere editoriale si basa più di tutto su un atto chiaro: la scelta. Chi pubblica sceglie. E non sceglie solo cosa pubblicare, ma anche come e soprattutto quanto. Con la logica della quantità, della fornitura che rimpiazza altre forniture invendute, si perde proprio questo cardine: la scelta. Scegliere non serve più a niente se la regola è produrre. Piccola e media editoria allora vuol dire scegliere, riportare l’idea editoriale alla sua autenticità, o forse solo riportare l’editoria al suo mestiere. Questo non vuol dire che l’editoria industriale deve smetterla di agire per le sue logiche: solo, che non ci coinvolga. Che non ci chieda di agire industrialmente.
Forse, in questo senso, più che chiamarla ‘piccola e media editoria’ dovremmo infatti chiamarla ‘editoria artigianale’, perché si muove intorno a logiche non industriali, non di quantità, non di produzioni. Solo questa editoria, un’editoria che non è costretta a rincorrere una fornitura continua, può produrre la tanto decantata bibliodiversità. Al momento, per potersi permettere questo, restando dietro ai criteri di mercato stabiliti, si può permettere di produrre meno solo chi rinuncia ad avere personale: tagliare sui costi. E molto lavoro si potrebbe creare semplicemente avendo più distribuzioni, non dovendo rispondere a un monopolio – in ambito artigianale, ma anche, sogniamo, in ambito industriale. Del resto, se il liberismo ci ha insegnato qualcosa, è che la libera concorrenza dovrebbe essere garantita. Eppure le realtà che producono libri in Italia sono le stesse che li distribuiscono; e che li vendono, laddove le principali catene di librerie appartengono proprio ai succitati gruppi editoriali.
Piccola e media editoria, o a questo punto editoria artigianale, è dunque un freno alle emissioni, alla sovrapproduzione che porta insostenibilità anche materiale: ogni anno vanno al macero centinaia di tonnellate di libri, per serena ammissione delle distribuzioni stesse. Il macero è parte integrante del meccanismo distributivo e dunque editoriale: è un prezzo da pagare, come lo sono le centinaia di libri di autori che sognano gloria mandati in sacrificio per creare lo spazio per un (possibile) Best seller. Se questa logica è valida per l’editoria industriale che l’ha creata, per noi no. Se una fiera che si chiama Più Libri Più Liberi e già inneggia alla quantità di produzione dal nome vuole celebrare l’associazione tra questo meccanismo e la piccola e media editoria, noi non vogliamo essere piccola e media editoria, vogliamo essere editoria artigianale e non cascare né in questi tranelli né avallare queste retoriche. Vogliamo produrre libri davvero diversi, che abbiano davvero dalla loro la possibilità della scelta. E vogliamo potercelo permettere, perché fare questo mestiere non può essere soltanto un privilegio.
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Le case editrici prime firmatarie (ma altre se ne stanno aggiungendo):
Armillaria, Capovolte, Edicola Ediciones, effequ, Liberaria, Pidgin, Racconti edizioni