All’età di settantotto anni è morto David Lynch. David Lynch è, credo di poter dire senza paura di essere smentito, il regista che più ha influenzato la mia scrittura, almeno la mia scrittura di quando iniziavo a scrivere e avevo bisogno dell’influenza di registi per trarre ispirazione, a volte al limite del plagio. Ricordo perfettamente quanto la visione di Twin Peaks, all’epoca in cui arrivò in televisione, mi sconvolse, trovate visionarie regalate a piene mani, trame distorte a uso e consumo del regista, e di chi se no?, poesia visiva e narrativa come mai mi era capitato di vedere prima al cinema, figuriamoci dentro la televisione prima delle serie Tv per come le conosciamo da Lost in poi. Ma ricordo ancora di più la violenza subita, violenza salvifica, sia chiaro, come di chi ti pratica una tracheotomia mentre stai soffocando, per capirsi, quando con Marina, al Cinema, nello stesso periodo, per altro, ho visto Cuore selvaggio. Il film che più di ogni altro, Pulp Fiction e Matrix, tanto per citarne due che in qualche modo hanno cambiato la grammatica del cinema tutto, e quindi anche della narrativa, pensate a quanti racconti o romanzi che di colpo sono iniziati un minuto prima della fine della storia, giocando di flasback, da lì in poi, non solo la mia idea di narrativa di genere, mi ha aperto gli occhi verso l’idea di una narrativa che andava a pescare sì nel genere, il noir nello specifico, lo strepitoso romanzo di Barry Gifford che racconta le gesta epiche e sghembe di Sailor e Lula a fare da canovaccio, ma mescolandolo con una idea precisa di arte alta, di visione, appunto. Sono uscito dal cinema, all’epoca, con la netta sensazione di aver assistito non tanto a una epifania, anche quella, ovvio, ma più di aver preso parte a una iniziazione, anche io come il Sailor portato magistralmente sullo schermo da Nicholas Cage avrei cercato a lungo una giacca di pelle di serpente capace di rappresentare il simbolo della mia individualità e della mia fede nella libertà personale, anche io, da quel momento in poi, non credo la faccenda sia poi molto cambiata oggi che sono un ultracinquantenne padre di famiglia, ho provato a mordere la vita con voluttà, Marina la mia Lula, la mia Lula a cui anche io, in passato, mi sono trovato metaforicamente a cantare Love me Tender di Elvis in piedi su una auto ferma in colonna, il viso pesto di chi le ha prese di santa ragione, lei sa di cosa parlo, io pure, forse non l’ho fatto abbastanza, a pensarci bene.
Un film sconvolgente, per me, Cuore Selvaggio, al punto che ricordo ancora oggi il giorno in cui ho trovato nella bancarella dei libri di Piazza Cavour il libro edito da Frassinelli, introvabile in libreria per motivi che mi sfuggono, di Barry Gifford, scrittore che per qualche anno ho seguito con brama, mi sono letto tutto quello che ha scritto, più e più volte, del resto dal suo Storie selvagge Lynch, diventato il mio regista preferito, poco dopo avrebbe tratto l’omonimo film, Barry Gifford, autore che nel mio immaginario, per essere concreti, e nella mia libreria, sta a fianco di quelli di Sam Shepard, scrittore, commediografo, attore, regista, uno che ha fatto il Rolling Thunder Revue Tour con Bob Dylan, Allen Ginsberg, Joan Baez e compagnia bella, uno che ha sposato Jessica Lange, Dio quanta bellezza tutta in una donna, e del resto quanta bellezza tutta in un uomo, Sam Shepard, uno che ha scritto Motel Chronicle, libro che ha ispirato Wim Wenders per il suo Paris, Texas, film che ci ha anche regalato quel capolavoro di colonna sonora tutto slide e deserto di Ry Cooder, e a fianco di Willy Vlautin, autore di un altro libro che, al pari di Cuore Selvaggio, seppur assai meno eversivo di Cuore Selvaggio, e di Motel Chronicle di Sam Shepard, ci regala uno spaccato del white trash americano, e quindi della deriva tardo capitalista dell’occidente, Motel file, al pari di tutti gli altri romanzi usciti in Italia, penso a Verso sud, a La ballata di Charley Thompson, e ai due libri usciti per la pregevolissima casa editrice Jimenez, Io sarò qualcuno e The Free, un autore incredibilmente capace di fermare i personaggi sulla pagina, dote rara, rarissima, per altro uscito a dopo aver già fermato tanti personaggi e raccontate tante storie con la sua band, quei Richmond Fontaine che a fronte della sua scoperta come narratore, ci mancano in maniera lancinante. Sconvolto da Cuore Selvaggio, quindi, sono andato a recuperare tutto quel che potevo su David Lynch, considerate che era un’epoca pre-internet, che i film li vedevamo ancora al cinema, o al massimo andando a prendere videocassette nelle rarissime videoteche, ancora non esisteva Blockbuster, guarda che oggetto di modernariato che ti sono andato a pescare, e che da noi di videoteca, in centro in Ancona, ce n’era solo una, Venere video, e già dal nome si intuiva che tipo di video la gente ci andava a cercare, e fa sorridere, oggi, in epoca di Youporn e Pornhub, pensare che la gente andava a prendere i film a luci rosse, all’epoca li chiamavano così, e per gente intendevo la gente altoborghese, perché solo loro inizialmente avevano i videoregistratori e infatti Venere Video era nel quartiere nel quale vivevo anche io, già vi ho detto di come ci fossi capitato a causa del terremoto del 1972, non per meriti sociali, lasciatemi usare una espressione sarcastica, alta borghesia che si lasciava andare a pruderie, come nella trama di Tempesta di ghiaccio di Rick Moody, altro gigante dentro le cui pagine mi sono rifugiato nei giorni scorsi, fa sorridere, oggi, in epoca di Youporn e Pornhub, pensare che la gente andava a prendere i film a luci rosse, all’epoca li chiamavano così, non volendo comparire tra gli spettatori dei cinema a luci rosse, lì ci andava il popolino, e per gente intendevo la gente altoborghese, da colui che di lì a breve sarebbe diventato il sagrestano della Cattedrale di Ancona, neanche Edgar Lee Masters sarebbe riuscito a immaginare una deriva del genere, neanche David Lynch stesso, e io, visto Cuore Selvaggio, sono andato a cercare quei film, anche se ancora in casa avevamo da poco sostituito una televisione in bianco e nero, ricordo perfettamente la vergogna che avevo provato con Marina quando lei, al telefono, da poco fidanzati, era il 1988, mi diceva che avrebbe voluto farsi i capelli dello stesso colore di Helena Bohnam Carter in Camera con vista, appena passato in tv, io a dirle, a Marina, che non avevo idea di come li avesse, i capelli, Helena Bohnam Carter, perché avevo la tv in bianco e nero, tv in bianco e nero che era uscita di scena proprio in quel 1990, perché c’erano i mondiali di Italia 90 e mio padre voleva vederli a colori, distinguendo quindi le maglie delle squadre, e con la prima tv a colori era entrata in casa anche un videoregistratore, videoregistratore col quale avrei quindi potuto vedere i film di Lynch trovati da Venere Video, Eraserhead, confesso, non particolarmente amato, The Elephant Man, Dune e soprattutto Velluto Blu, il Velluto Blu con il Kyle MacLachlan che interpretava nel mentre anche l’agente Cooper di Twin Peaks, perché Twin Peaks era contemporaneo a Cuore Selvaggio, oltre che la già citata Isabella Rossellini e a un gigantesco e inquietante Dennis Hopper, oltre che la solita, vien da dire, Laura Dern, la Lula di Cuore Selvaggio, attrice feticcio insieme alla Rosselini del primo Lynch, Isabella Rossellini, così, per parlare, che era anche la compagna di Lynch, e Dio quanto ho amato la foto dei due, lei bellissima, lui con un maglione col collo alto che copre il viso lasciando scoperto solo il noto ciuffo bianco di capelli, Isabella Rossellini cui Dennis Hopper, il crudele Frank Booth di Velluto Blu, si rivolge chiamandola “mammina” mentre la violenta, un “mammina” soffocato attraverso una mascherina che lo collega a una bombola di ossigeno.
Ecco, dovessi pensare a un regista in grado di raccontarci il mondo inquieto che ci stiamo vivendo, penserei proprio a quel David Lynch lì, prima dei deliri quali Mullholland Drive, film che ho a mia volta adorato, a-do-ra-to, e Inland Empire, per capirsi, o della terza famigerata serie di Twin Peaks, che per la cronaca ho visto con la stessa voluttà con cui avevo visto le prime due, un mondo fatto di nani che parlano al contrario, di mostri che ci vivono accanto, di violenza e sesso ma anche di grandi squarci di poesia, e su tutto la musica, perché Lynch, musicista, ha sempre dato alla musica uno spazio fondamentale nei suoi film, si pensi al Chris Isaac di Wicked Game, il videoclip in bianco e nero con Helena Christensen è una delle cose più erotiche vista in quegli anni, al brano che proprio a Velluto blu regala il titolo, la Blue Velvet di Bobby Vinton, e soprattutto alle colonne sonore di Badalamenti, la canzone interpretata da Julie Cruise, Falling, ancora oggi capace di evocare angoscia come fossimo proprio lì, dentro la coltre di nebbia del paese natale di Laura Palmer e di quel mostro di, spoiler, suo padre. Julie Cruise l’ho vista una volta dal vivo, una vita fa. È successo quando sono andato a Arezzo col mio amico Corrado, oggi professore di economia in Australia, per vedere il concerto di Saul Williams a Arezzo Wave. Era da poco uscito Amethyst Rock Star, suo disco d’esordio che avevo ricevuto in redazione a Tutto Musica, e mi ero letteralmente infoiato nell’ascoltarlo. Lui, quello che aveva vinto il Sundance Festival col film Slam, incentrato sul mondo della slam poetry, mischiava rock, rap, black music, crossover, tutto il meglio di quegli anni. Erano anni in cui il crossover, il mix tra rock bianco e black music, stavano animando la scena alternativa, penso ai Living Colour degli esploratori Vernon Reid e Corey Golver, penso ai Red Hot Chili Peppers, ai Fishobone, ai Rage Against the Machine, George Clinton con le sue astronavi Funkadelic e Parlamient e Sly Stone con la sua famiglia a fare da fari, ma Saul Williams era altro, autorevole, alto, poeticamente eversivo, lo ritenevo e ancora ritengo un gigante, il suo The Inevitable Rise and Liberation of Niggy Tardust, evidente risposta allo Ziggy Stardust di Bowie, album messo direttamente in free download come chiara risposta a un mercato corrotto da Trent Reznor dei Nine Inch Nails, band solita regalare la propria musica nei modi più disparati, come quando lasciavano chiavette con interi album inediti nei bagni dei locali dove tenevano concerti o, più recentemente, quando hanno regalato due interi album, Ghosts V e Ghost VI, proprio durante il Coronavirus, Trent Reznor che di quell’album era il produttore, o i recenti MartyLoserKing e Encrypted & Vulnerable, tutti con la fantascienza a fare da sfondo, fissi nella mia autoradio. Corrado, che era ancora in Ancona ma stava già iniziando a guardare al resto del mondo, si era proposto di accompagnarmi, Marina incinta di Lucia era rimasta giustamente a casa, ultimo concerto visto prima del parto quello dei 24 Grana al Castello di Falconara. A aprire quel concerto, non erano anni di internet, ancora, le notizie giravano più a fatica, c’era proprio Julie Cruise, quella di Twin Peaks, lo avremmo scoperto una volta arrivati sul posto. Se il concerto di Saul Williams si sarebbe dimostrato gigantesco, epico, una capacità di prendersi un pubblico che in buona parte manco sapeva chi fosse, incredibile, molti accorsi lì per sentire dopo di lui i St. Germaine, formazione che a me faceva cagare, quella di Julie Cruise era stata straniante, esattamente come i film grazie ai quali l’avevo conosciuta, lei truccata troppo, come una baldracca, perché questa era chiaramente la sua volontà, quel che voleva comunicarci, l’aria di chi è lì per sbaglio, fintamente ubriaca, stonata non ne senso di incapace di suonare, ma proprio di una che si è stonata, anche quella finzione, eterea, certamente, ma anche carnalmente fisica. Un’esperienza che, a distanza di ventiquattro anni, ricordo perfettamente, al punto che, mentre con Saul Williams due chiacchiere a fine concerto ce le sono andate a fare, ho una foto con lui che conservo da qualche parte, con lei, Julie Cruise, no, manco fosse necessaria la mascherina e la bombola di ossigeno di Dennis Hopper per avvicinarla. Ora, amo forzare la mano, amo andare lungo, ma forse oggi sto esagerando, David Lynch è morto, capirete che abbia qualcosa da dire. A questo punto,dovrei raccontandovi di quando, nel 2000, io e Cristina Donà siamo sì andati alla deriva per gli USA sulle orme del Bruce Springsteen di The River, viaggio poi finito nel libro a quattro mani God Less America, uscito per Mondadori e oggi oggetto di mordernarriato, ma in realtà con David Lynch come bussola, entrambi lo amavamo molto, con tanto di citazione finale, parlo del libro, con tanto di citazione finale della frase conclusiva del suo film Una storia vera, con per altro un cameo dell’Harry Dean Stenton protagonista di Paris, Texas, ma soprattutto con ultima tappa del viaggio nella Twin Peaks di San Francisco, una Twin Peaks sbagliata, certo, non era quella la location della serie di Lynch, ma dichiarazione d’amore senza se e senza ma. Avrei un sacco di altre cose da dire, non necessariamente intelligenti. Come che, proprio per quella sua ossessione per i nani, chi ha visto i suoi film sa di cosa parlo, c’è stato un lungo periodo nel quale piazzavo la parola “nano” in qualsiasi articolo scrivessi, parlo dei tempi in cui lavoravo per Tutto Musica, fatto che ha contribuito a cementare la mia amicizia con lo scrittore Giuseppe Genna, a sua volta ossessionato come me da Lynch e anche dai nani. Il racconto di quando, a Voghera per presentare il libro scritto a quattro mani insieme, Costantino e l’impero, all’Ipermercato, ci siamo trovati davanti una coppia di nani che spingeva il carrello carico di spesa, uscito su Clarence, credo, è una delle cose cui ancora oggi tengo di più, quel libro del resto portava come epigrafe questa frase di Joe Lansdale, “La prima cosa che notai fu un nano seduto sul letto. Credo sia normale, notare subito un nano”, cosa ci saremmo mai dovuti aspettare? Ci sto girando intorno, ma oggi David Lynch se n’è andato. Sì, se n’è andato, perché pur avendo sempre io rifiutato di usare giri di parole come questi, i “se n’è andato”, gli “è scoparso”, i “ci ha lasciato”, preferendo un più pragmatico “è morto”, nel caso di Lynch è plausibile supporre che se ne sia semplicemente andato da qualche altra parte, in un’altra dimensione, e so che detta così sembro Red Ronnie, Dio mi perdoni. Un mondo inquietante come il nostro perde il suo più lucido cantore, e forse anche per questo, in effetti, ancora una volta è riuscito nell’intento di raccontarci lo zeitgeist, così, facendo parlare al contrario nani, drappeggiando tutto con pesanti tendoni rossi, dipingendo la realtà di una sua qualche visione, che pur sembrando incredibilmente un incubo era comunque sempre meglio di quello che ci attendeva e ci attende fuori da un cinema. Gli devo qualcosa, a David Lynch. Del resto gli deve qualcosa chiunque abbia mai visto una sua opera. Io gli devo qualcosa di più. Mancherà.