Pochi autori contemporanei hanno saputo resistere alla tentazione tossica di quelle che Bernard-Henri Levy definì “barbarie dal volto umano”. E cioè le utopie ottimiste del Novecento, su tutte il nazismo e il comunismo, che immaginavano costantemente un’eugenetica culturale, nella speranza di poter costruire una società pura. Oggi, che di quelle grandi ideologie abbiamo il surrogato diabolico, ci si accontenta di un’intellighenzia pura, di un club di amichetti e così via. Bene, Mario Vargas Llora, che muore a 89 anni, era tutto ciò che all’intellighenzia neonazista e comunista (in una parola, socialista) non poteva piacere. Il fatto che abbia vinto il Nobel nel 2010 per la sua lettura analitica, chiarissima, del potere, non lo rende in nessun modo più vicino a un sistema di potere culturale basato sull’idea che tutto ruoti intorno all’accumulazione di capitale simbolico. Anzi, secondo questa stessa logica, uno come Mario Vargas Llosa, che il Nobel lo ha accettato, sarebbe il perfetto esempio di cos’è la cultura neoliberista o neoliberale.

È invece lui, fin dagli anni Ottanta, si è sempre posto sotto un’altra volta stellata e affrescata, sofisticata, incomprensibile (come dice lo scrittore del New Yorker Adam Gopnik) attraverso slogan e manifesti nelle proteste: il liberalismo. Né neoliberismo, né socialismo. Prima la delusione verso quest’ultimo, verso Cuba, verso l’Urss, poi la scoperta, vivendo in Uk all’epoca di Margaret Thatcher, della grande filosofia della società aperta, Karl Popper su tutti. Lui, che si avvicinò al mondo di Fidel Castro, per poi separarsene nel 1971, quando venne arrestato il poeta Heberto Padilla. E dunque l'unico, del boom dell'America Latina (a differenza di Garcia Marquez e Julio Cortazar; anzi, al primo darà, senza mai spiegare il motivo, pure un pugno) a rendersi conto di come, fattualmente, il comunismo uccidesse la poesia, quindi la libertà. Capì che la poesia viveva di un suo fuoco, come la libertà, a differenza di quello "statalismo parassitario" che inizierà a combattere con sempre più convinzione proprio negli anni inglesi. Una difesa del liberalismo, e quindi del libero mercato, che lo porterà a sostenere anche Javier Milei, attuale presidente dell'Argentina. Il liberalsimo era l'unica salvezza per l'America Latina e così pare essere, grazie alla ricetta tatcheriana di Buenos Aires. Un'altra profezie del Nobel Vargas Llosa che si è avverata. Tutto a partire da quel bambino scozzese, così importante, così necessario, che diventerà il primo e forse solo vero protagonista umano di un “romanzo di idee”, il grande romanzo recente del liberalismo, Il richiamo della tribù (Einaudi, 2021). Era Adam Smith, padre di quel libero mercato fondato sui valori, di un’economia che doveva essere morale. Adam Smith che, a differenza della vulgata marxista che vorrebbe tutti i teorici liberali complici del moderno fasciocapitalismo, metteva in guardia non solo dalle derive socialiste, ma anche dal crony capitalism, dal capitalismo di relazione, e cioè dalla connivenza tra capitalismo e Stato: insomma Musk + Trump (ma anche solo il Trump del 2016). Forse proprio per questo uno come Vargas Llosa poteva dire, con tutta l’autorità che si deve a un grande difensore della libertà, che Trump è un “pagliaccio e razzista”.
Per colpa di quel bambino quando diventerà Accademico di Francia verrà criticato, perché di "estrema destra", solo perché estremista della libertà. Certo, era vicino all'anarcocapitalismo, e cioè all'unico anarchismo coerente. Questo lo rendeva poco inquadrabile soprattutto in Europa, dove abbiamo sempre associato il libero mercato a qualcosa di fascista, negando per altro la nostra storia (una storia di socialismi). Anche in amore, Vargas LLosa, è stato un anarchico. Sposato e innamorato per cinquant'anni della stessa donna, sua cugina di primo grado, con cui romperà nel 2015, improvvisamente, raccontando di un amore improvviso per l'ex moglie di Julio Iglesias, la modella Isabel Preysler. Ma nel 2023, a 87 anni, tornerà da lei, dall'unica, dal grande amore dei suoi venticinque anni, quando la passione è libera, il sentimento è inattaccabile. Tant'è che entrambi, Patricia a soli 15 anni, deciderà di seguire per sempre lo scrittore, nonostante il parere contrario della famiglia. ha poi sopportato la separazione, per ricongiungersi a un paio d'anni dalla morte. Eccolo, il liberalismo esistenziale di Vargas Llosa, libero di sbagliare di tornare indietro, di farsi capire.
Questo amore, come la politica, era in fondo la risposta a una spinta esistenziale contraddittoria, profonda, paradossale. La stessa che gli permetterà di unire, in un breve capolavoro, Elogio della matrigna, il sacro della famiglia e la perversione più probita: quella tra un figliastro e la matrigna, cioè tra colui che dovrebbe forzarsi di diventare figlio e colei che avrebbe dovuto cercare di essere solo madre (e che invece non resisterà di fronte al giovane ragazzo, finendo per eccitarsi solo contemplandolo).

Contro tutti i clown della letteratura, non solo i clown razzisti ma anche i clown progressisti, Llosa era ciò che lui stesso diceva di Isaiah Berlin: “Uno dei rari intellettuali tolleranti, capaci di riconoscere che le proprie convinzioni potevano essere erronee e quelle dei suoi avversari ideologici, corrette” (Il richiamo della tribù). Di lui, dunque, si ricordino oltre al racconto del suo mondo, l’America latina (accanto ai suoi romanzi più famosi, allora, si leggano Sciabole e utopie e Sogno e realtà dell’America latina, entrambi pubblicati da Liberilibri), anche il senso della libertà come pluralismo, umiltà epistemica, apertura, ma anche come approdo di una storia personale che dall’infatuazione giovanile per il pensiero totalitario (letto, come si fa sempre da giovani, come pensiero libertario) è arrivata a un pensiero antiautoritario della convivenza democratica.
