Una volta un regista teatrale mi disse che per imparare il cinema si devono guardare i film di Sergio Leone. Per imparare il giornalismo, in Italia, si deve leggere Filippo Ceccarelli e il suo B. Una vita troppo (Feltrinelli, 2024). Seicento pagine di lavoro d’archivio rielaborate con la penna del narratore, l’ironia del commentatore e il rigore del cronista. È la vita di Berlusconi, si direbbe. No. È la storia di un’epoca. La biografia di un momento dell’Italia repubblicana che non avrà eguali e non ha avuto precedenti. C’è un prima Berlusconi (a.B.) e un dopo Berlusconi (a.B.). B esce, chiaramente, d.B., ma di questo tempo a venire determina le coordinate grazie a un lavoro che inizia così: “La Storia è tanta roba, nel caso di Berlusconi ancora di più”. Vero. Berlusconi ha privatizzato la storia, o ha reso la sua vita un bene pubblico. E quegli aspetti che avrebbe preferito tenere per sé sono diventati pubblici a forza, come se di un personaggio così non si potesse nascondere nulla. Berlusconi è un cornetto napoletano e un amuleto, ma anche uno spettro che continua a muovere parte della destra di governo. Anche il finale di questo libro è imperdibile, ma per godervelo dovete leggerlo tutto, quindi nessuna anticipazione in tal senso.
La prima persona, poi, è d’obbligo. Berlusconi non era il tipo che non personalizzasse. Dalla vicenda al Giornale di Montanelli (divenuto poi il Giornale di Berlusconi) fino agli ultimi anni della sua vita. E quindi avere a che fare con lui non poteva che riguardarti da vicino. Se sei un giornalista ancora di più, perché pochi uomini sono capaci di accompagnare una carriera, o quasi, trent’anni di scandali, leggi, quartieri costruiti, crisi politiche, film, televisioni, tutto. Dove poteva prendere Berlusconi ha preso e lo ha fatto con l’astuzia dei grandi condottieri cresciuti come giullari: dando. Anche molte soddisfazioni. L’ultima, e unica di quella campagna elettorale, precisa Ceccarelli, fu questa: “L’epifania del Cavaliere su TikTok fu l’estremo e glorioso successo mediatico, per giunta sulla più evoluta e selvaggia piattaforma cinese, la più frequentata dai ragazzini”. Prima di tutti, meglio di tutti. Arrivò a parimerito con Matteo Renzi, più giovane e più abile, si tenderebbe a credere, con i nuovi media. E invece no: “Il Cavaliere letteralmente lo asfaltò: 283mila like contro 12mila. Tempo due giorni, e Berlusconi viaggiava sui social con cifre da record. La prima barzelletta era stata vista da cinque milioni di individui, i follower erano già 30mila, 800mila cuoricini. Non solo venica da chiedersi come mai avesse tardato tanto a farsi vivo lì dentro, ma anche dove trovasse la sicurezza per rivendicare come a suo giudizio sarebbe stato molto meglio che la piattaforma si fosse chiamata Tik tok tak, la dove il ‘tak’ finale, come spiegò in un’esalazione di illimitata soggettività, ‘sono io’”.
È vero, “vale la pena di ripeterlo: è una favola bugiarda e tutta nostra che basti una sola persona al vertice perché l’intero paese marci nella direzione giusta. Troppo facile, non è così, non lo è mai stato, si tratta di un’illusione pericolosa, specie per chi è chiamato a svolgere quel terribile impegno”. Ma a uno come Berlusconi, come sottolinea Sabino Cassese e ricorda sempre Ceccarelli, non spetta il ruolo del policy maker, bensì del politician. Potremmo dire: già un personaggio storico prima di essere storicizzato, prima di morire. Indipendentemente da quello che ha ottenuto, è stato il fatto stesso di vivere il successo di cui tutti si ricorderanno. C’è una parte della nostra vita vissuta nell’era Berlusconi, non l’era Prodi, l’era Occhetto, l’era Letta, l’era Renzi. E probabilmente, ma inutile fare pronostici, non ci sarà nessuna “era Meloni”. Lui è stato l'unico. Nel bene e nel male (e quasi sempre in una democrazia questo vuol dire nel male).