Ok, cerchiamola allora questa musica diversa. Scomoda e brutale, ma anche – a tatti, sia chiaro – memorizzabile. Cerchiamoli questi brani spappolati dalla white noise, sepolti dai filtri electro sapientemente collocati dal produttore Justin Raisen (Lil Yachty, John Cale, Yeah Yeah Yeahs, Charli XCX) lungo le undici scorbutiche, urticanti e potentemente evocative tracce di “The collective”, secondo album solista di Kim Gordon, 71 anni, voce e basso dei Sonic Youth. Cerchiamola, questa musica scartavetrante e troviamola nei solchi di un disco splendido – fra i migliori di questa prima parte di 2024 –, una scintilla grigia metallizzata che squarcia la sfacciata monocromia delle superfici hyper-pop. È un disco a denti perennemente digrignati, questo distopico viaggio di una delle figure, la Gordon, più emblematiche della scena alternativa degli Ottanta e dei Novanta. Questo è stata Kim Gordon, bionda e nonchalant anche quando sul palco il fracasso era tanto e le chitarre buie, pedanti e scorticanti della Gioventù Sonica partorivano i futuri Mogwai davanti a platee ipnotizzate dal groove e dall’idea di essere al centro di un mondo nuovo e giusto perché proponeva un altro punto di vista. Alternativo, appunto.
“The collective” non vuole sovrapporsi alla storia di chi lo ha generato, però con lo spirito dei Sonic Youth più intransigenti condivide le gioie dell’abrasione. Ci si arriva per strade diverse, con questo disco, a lacerarsi e godere della lacerazione. Un album che ti obbliga a diventare “attento follower”, “The collective”, poiché pretende assoluta dedizione. La patina sonora è persino scintillante, alle volte. I beats schizzano fuori, acuminati, dopo ogni parola, ogni libera associazione proposta da Kim. Echi trap, persino, ma trap pervertita, violentemente manipolata, modificata. È un caos da sturbo, quello distillato da “The collective”. E suona quasi offensivo se paragonato alla timida offerta di gente che spesso ha un terzo degli anni di Kim Gordon. Perché qui c’è una donna polemica e cool che ha contribuito a scolpire il volto slavato e segnato degli anni Ottanta newyorchesi, acida madeleine ancora oggi in grado di materializzare davanti a te i subdoli demoni dei moraleggianti States di provincia.
Dipende anche da voi che ascoltate. Dalla vostra disponibilità ad essere piacevolmente bullizzati da una donna in età da nipotini che preferisce rimasticare i Suicide e suonare comunque futura anziché rifugiarsi nel burraco. È un caos, dicevamo, ‘sto disco, un fottuto convegno di spine, spigoli e ossessioni. A cui ogni anima che per almeno cinque minuti è entrato nella dimensione estetica dei Sonic Youth deve giocoforza partecipare. Come fosse un corso d’aggiornamento obbligatorio. Per aggiornarsi su cosa, nello specifico? Boh, forse per crescere ancora tastando il proprio polso e sentirci dentro un battito che ha senso oggi e avrà senso domani perché non è il battito di una “Teenage riot” riscritta ad uso e consumo di chi, a quel tempo, non c’era. “The collective” è una teoria diversa per l’oggi. Non guarda mai indietro. Preferisce ballare, a testa china, ossessivamente, su un raggelante tappeto di ansie, ferite, visioni.