Dovete accettarlo, nella musica italiana esiste un’era Cremonini. L’era Cremonini non è solo quella che permette a tutti, TUTTI, di sopravvivere in un mercato discografico spesso saturo ed eccentrico (in Italia sentiamo musica che all’estero non sempre si filerebbero; lo ha capito Damiano David, che infatti canta e si veste come Harry Styles e Stephen Sanchez) che tutto gli deve; è anche il momento migliore per avere speranza nella musica e nel cantautorato italiano. Ecco perché. È vero, Cesare Cremonini a fare musica si diverte, ma non basta questo. La differenza la fa chi si diverte ad ascoltarti. Il divertimento è una roba serissima. Il divertimento è volgere altrove, muovere altrove, in un certo senso allontanare. Cremonini ha questo potere, ti prende e ti porta altrove, con una vespa, vent’anni fa, o a piedi, di corsa in salita verso San Luca.
Non serve vivere a Bologna per capire che Bologna è una roba seria, come il divertimento. San Luca (nel nuovo album, Alaska baby) è la poesia d’amore che Bologna merita. È un modo per dire alla “vecchia signora” di Guccini “Aspetta, ora torno”. Ovunque io sia, torno. È un attimo che Bologna diventa non solo città ma anche Parola, le parole nude sotto le lenzuola che canta Cremonini, e pura amata. Bologna è POETICA.
Correndo fino a San Luca per trovarsi in qualche sentiero è nuovo, scrive Cremonini, prima di cantarlo. Scrivere è cantare in silenzio, è suonare prima di suonare, mica lo sanno fare tutti. Cesare Cremonini sì.
Capita di vivere come scollati dal mondo perché, in realtà, si è freddati dal mondo là fuori. Cremonini quel mondo lo ha attraversato, tra aurore boreali e States, e ha indossato il giubbotto antiproiettili della nostalgia di casa.
Bologna adesso ha il suo Cesare, il suo imperatore colto e umano e irreale, come nessuna città in questo momento. Cantare di tutto è giusto, ma scegliere cosa cantare è altrettanto importante e mentre a Milano, a Napoli, a Roma, si racconta l’anti-vita dei bassifondi, si elogia la microcriminalità, per una volta una canzone parla di cittadini comuni la cui unica cittadinanza è l’eterna adolescenza di chi, anche dopo aver girato il mondo come Cremonini, si sente fragile.
Oh, io sotto questo Cesare, a Bologna, ci vivrei (e, in effetti, ci vivo).