Per alcuni Eurovision è un circo, una mezza pagliacciata di una settimana dove artisti da tutto il mondo danno il meglio (e il peggio, in alcuni casi), portando la loro musica, cultura e storia sul palco. Per altri, invece, è l’ennesima “settimana santa” in cui si dice “ne riparliamo dopo Eurovision”. C’è chi lo ama e chi lo odia. Come tutti i festival che si rispettino non mette d’accordo nessuno. Quest’anno Eurovision Song Contest si terrà a Basilea (la vittoria, nel 2024, è andata alla Svizzera, con Nemo e il suo brano The Code) da martedì 13 a sabato 17 maggio. Ci siamo quasi, quindi. Come ogni anno se ne parla e se ne parlerà tanto anche in Italia. Non solo perché siamo tra i “Big Five”, ovvero tra i cinque Paesi fondatori del festival (a cui partecipiamo dalla lontanissima prima edizione, nel 1956), ma anche perché a rappresentarci di sarà Lucio Corsi, secondo classificato a Sanremo arrivato all’Eurovision Song Contest dopo la rinuncia di Olly. In questi giorni, però, a far discutere è la decisione degli organizzatori della kermesse, che hanno deciso di far firmare a tutti i partecipanti e gli accreditati una sorta di documento in cui dovranno seguire determinati comportamenti. Tra questi: neutralità politica, fair play e rispetto verso artisti e broadcaster. Simona Martorelli, Direttore Relazioni Internazionali della Rai, ha spiegato che gli strumenti adottati “non sono punitivi, ma di responsabilizzazione”.
Ma da dove nasce questa scelta? Sembrerebbe partire tutto dalle polemiche della scorsa edizione per alcune esibizioni con messaggi politici. Inoltre, proprio negli scorsi giorni settantadue ex concorrenti, ballerini e cantanti che hanno partecipato alle selezioni nazionali e alle finali di Eurovision hanno chiesto l’esclusione di Israele e del canale televisivo pubblico israelliano Kan. Gli artisti, secondo quanto emerso, avrebbero accusato Kan di complicità “nel genocidio di Israele contro i palestinesi di Gaza, nel regime di apartheid che dura da decenni, nell’occupazione militari ai danni del popolo palestine”. Il quadro è chiaro, ma c’è una domanda da porsi: parliamo di censura? In Italia dove diversi gli artisti che hanno “sfruttato” (nell’accezione positiva e negativa del termine, a seconda dei casi) palchi importanti per veicolare messaggi politici. Dell’esibizione dei Patagarri al concerto del Primo Maggio se ne è parlato per giorni, per fare un esempio recente. Partendo dal principio, bisognerebbe innanzitutto capire con che scopo sia nato Eurovision Song Contest. E ve lo spieghiamo subito: è stato pensato per promuovere l’unione e la cooperazione culturale tra Paesi attraverso la musica. Ecco, già qui abbiamo due parole fondamentali: unione e cooperazione. Al di là del pensiero politico, Eurovision è nato con l’obiettivo di provare a creare condivisione e scambio di cultura attraverso la musica. E salire su un palco, veicolando un qualsiasi messaggio politico, non sempre riesce a creare tutto questo, ma spesso genera l’effetto contrario. Ora, di luoghi per parlare gli artisti ne avrebbero tantissimi, a partire dai social per arrivare ai loro tour e live nei più disparati contesti. Spesso, però, sono i primi a non “ritragliarsi” uno spazio per parlare al loro pubblico di politica o di qualsiasi altro argomento culturale o di attualità. E quindi? Giù di critiche perché “quell’artista non ha parlato di quella x cose”. Non sta a noi decidere di cosa debbano parlare, cosa dovrebbero dire o da che parte dovrebbero stare.
Ed è un discorso che vale non solo per chi fa musica, ma anche per chi lavora sui social, nella comunicazione o in qualsiasi altro ambito. Com’è chiaro che non possiamo decidere noi quali messaggi debbano essere veicolati sui palchi importanti, ma è abbastanza evidente che se al Concerto del Primo Maggio si parla più di guerre che della difficile situazione lavorativa in Italia, per giovani e non, qualche domanda viene da farsela. E se qualcuno deciderà di non rispettare il documento firmato per questa edizione di Eurovision Song Contest si prenderà le sue responsabilità, ma non sarà migliore degli altri. Bisognerebbe, forse, dimostrare che parlare di guerre (qualsiasi, non una in particolare come viene spesso fatto di questi tempi), non sia semplicemente un trend. E aspettarsi che lo facciano gli artisti come se fosse un obbligo ci mette semplicemente di fronte a un fatto concreto: probabilmente non abbiamo capito un caz*o, ed è come aspettarsi che il Papa, con la sua pace “disarmata e disarmante”, possa far finire tutte le guerre semplicemente schioccando le dita.
