La notizia della cancellazione del Rubicon Festival 2025 a Bratislava, dove Ye (Kanye West) sarebbe stato headliner, mi ha colpito profondamente. Non tanto per l’evento in sé, quanto per ciò che rappresenta: un ennesimo episodio di censura mascherata da moralismo, un attacco alla libertà espressiva che, come filosofo e intellettuale, non posso che denunciare con forza. La petizione che ha raccolto quasi 5.000 firme contro la partecipazione di Ye, accusato di antisemitismo e di aver espresso posizioni controverse, è diventata il pretesto per smantellare un intero festival. Ma fermiamoci un attimo: cosa stiamo davvero sacrificando in nome di questa presunta “giustizia”? Ho scritto in passato di Ye (anche qui), non perché sia un suo apologeta, ma perché la sua figura rappresenta un nodo cruciale del nostro tempo: la tensione tra creatività, provocazione e il desiderio di controllo da parte di una società sempre più incline a giudicare piuttosto che comprendere. In un articolo su Internazionale (14 luglio 2023, “La voce del padrone”), ho analizzato come le voci fuori dal coro, come quella di Ye, siano spesso messe a tacere non per ciò che dicono, ma per ciò che rappresentano: un rifiuto dell’omologazione, un grido di libertà che disturba. Ye non è un santo, né un modello di virtù. È un artista, un provocatore, un uomo che usa la sua piattaforma per scuotere le coscienze, a volte in modo scomodo, a volte sbagliando. Ma è proprio questo il punto: la libertà espressiva non è un privilegio riservato a chi non sbaglia mai, ma un diritto inalienabile di chiunque voglia contribuire al dibattito pubblico. La cancellazione del Rubicon Festival non è solo una questione logistica o economica, come gli organizzatori hanno cercato di far credere, citando “circostanze impreviste” e “pressioni esterne”. È un atto politico, un cedimento alla pressione di una minoranza rumorosa che ha deciso che le idee di Ye non meritano di essere ascoltate. Questa non è giustizia, è censura. È la negazione dello spazio pubblico come luogo di confronto, di scontro, di crescita. Come ho sostenuto nel mio libro Anarchia. Il ritorno del pensiero selvaggio (Raffaello Cortina Editore), la libertà di pensiero non può essere sacrificata sull’altare di un moralismo ipocrita. Se un artista come Ye, con le sue contraddizioni e provocazioni, non può esibirsi perché le sue parole offendono, allora che ne è della nostra capacità di dialogare? Di costruire un discorso collettivo che non si riduca a un applauso unanime?

La petizione contro Ye, che lo accusa di glorificare Hitler e di sostenere ideologie estremiste, si basa su una lettura semplificata e strumentale delle sue azioni. Non sto difendendo le sue affermazioni, alcune delle quali sono state senza dubbio problematiche. Ma ridurre un artista complesso come Ye a un’etichetta di “antisemita” è un atto di pigrizia intellettuale. Le sue provocazioni, come ho scritto in passato, sono un invito a interrogarci sul potere, sulla cultura, sulla nostra stessa ipocrisia. Ye non è solo un musicista: è un pensatore che, nel bene e nel male, ci costringe a guardare nello specchio delle nostre contraddizioni. Cancellarlo non risolve nulla; al contrario, ci priva di un’occasione per riflettere, per criticare, per crescere. La libertà espressiva, come ho argomentato in molti miei interventi, non è un lusso, ma una necessità. È il fondamento di una società che non vuole stagnare, che non vuole piegarsi al conformismo. Quando ho deciso di ritirarmi da Più libri più liberi 2024, dopo le polemiche legate al mio processo per accuse personali, l’ho fatto per non oscurare il valore di un evento culturale. Ma il caso di Ye è diverso: qui non si tratta di un individuo che si autoesclude per rispetto, ma di un sistema che esclude, che silenzi, che decide chi ha diritto di parola e chi no. La violenza più subdola è quella che si nasconde dietro la pretesa di proteggere: in questo caso, si protegge un’immagine di purezza culturale a scapito della libertà di tutti. Il Rubicon Festival avrebbe potuto essere un momento di confronto, un’occasione per ascoltare Ye, per criticarlo, per contestarlo. Invece, si è scelto di chiudere la porta, di spegnere il microfono. Questo non è progresso, è regressione. È la vittoria di chi preferisce il silenzio al caos fertile delle idee. Come filosofo, non posso che oppormi: la libertà espressiva non è negoziabile, neanche quando ci mette a disagio. Anzi, è proprio nel disagio che si nasconde la possibilità di un cambiamento reale. Ye, con tutte le sue contraddizioni, è un catalizzatore di questo disagio. Cancellarlo non ci rende più giusti, ma più poveri. In un’epoca in cui il pensiero selvaggio, come lo chiamo nel mio lavoro, è sempre più soffocato da un’etica del controllo, difendere la libertà di Ye significa difendere la nostra. Non si tratta di approvare ciò che dice, ma di riconoscere il suo diritto di dirlo. Se non lo facciamo, stiamo costruendo un mondo in cui solo le voci conformi avranno spazio, e questo, come ho scritto più volte, è l’antitesi di ogni vera rivoluzione culturale. Il Rubicon Festival è stato cancellato, ma la battaglia per la libertà espressiva continua. E io, come sempre, sono dalla parte di chi non si arrende al silenzio.
