Filippo Giardina è più di un comico. La risata è uno stimolo positivo, o come ci ha spiegato lui stesso, una carezza. Ma dietro c'è tutta la società, la cultura, l'epoca in cui viviamo. Ci sono le incazzature e il valore delle persone, delle relazioni. In occasione del suo ritorno sul palcoscenico con Cabaret (qui il link ai biglietti), abbiamo parlato con Filippo del suo spettacolo, ma non solo. È stato il primo a portare la stand-up comedy in Italia, ma adesso che è diventata una moda ha deciso di metterla in crisi, ristabilendone il senso originario. Un'indicazione di metodo: la parola che permea il suo spettacolo è controcultura, ed è per questo che abbiamo deciso di condurre l'intervista sul tema dell'opposizione. Chi sono i nemici della comicità? La cultura “lo è da sempre”, la libertà di espressione che per lui “non è mai stata un problema”, i comici stessi “Giraud? Passiamo oltre”, la tecnologia, i social, gli influencer positivi, le battaglie della sinistra che favoriscono la destra e molto altro. Ma una via d'uscita c'è: per scoprirla leggete qui sotto, e andate a vedere Giardina a teatro. Il 3 ottobre al Teatro Olimpico di Roma, il 4 ottobre al Teatro Gioiello di Torino, il 10 ottobre al Teatro Dehon di Bologna e il 16 ottobre al Teatro Carcano di Milano.
La cultura di oggi è nemica della comicità?
In Italia, la cultura è nemica della comicità da molto tempo. All'estero, i comici vengono coinvolti nella scrittura di film e serie televisive, ma in Italia rimangono confinati al ruolo di semplici intrattenitori. Esistono programmi che invitano i comici, ma sono pochi quelli interamente dedicati a loro. Un esempio significativo è il "Late Night Show": in Italia lo conduce Alessandro Cattelan, che non è un comico. Questo dà bene l'idea di come la comicità venga percepita nel nostro Paese.
Poi c'è il problema del bigottismo.
Il bigottismo è ormai una minoranza rumorosa. Prendiamo il caso di Vannacci: oggi, qualsiasi scemo che urli frasi provocatorie viene elevato a modello da chi è semplicemente stanco. Tra questi, sì, ci sono anche dei fascistelli e degli estremisti, ma ci sono persone che sono solo esasperate da un mondo che faticano a comprendere. Quando si insiste su questioni come desinenze e articoli, paradossalmente, si crea un danno all'immagine di chi promuove tali battaglie.
Ti riferisci a tematiche care alla sinistra, immagino.
Prendiamo la famosa “casalinga di Voghera”, che potrebbe essere molto interessata a tematiche femministe concrete, come il diritto all’aborto, la disparità salariale o la scarsa rappresentanza delle donne in alcuni settori. Ma quando sente parlare solo di come modificare il linguaggio o su questioni terminologiche, è probabile che si allontani e pensi: “Questo non mi interessa”.
La libertà di parola è diventata un cavallo di battaglia della destra. Mi parlavi di Vannacci, ma penso anche a figure come Elon Musk e Matteo Salvini.
Il problema è che spesso queste battaglie sono portate avanti da persone discutibili. Se diamo a personaggi come Elon Musk o Vannacci la possibilità di ergersi a difensori della libertà di espressione, significa che abbiamo un problema serio. Sta diventando un tema delicato, perché se figure così discutibili si fanno portavoce di questo diritto, la società è davvero vicina a un collasso culturale.
La libertà di espressione è davvero un problema?
Per me, personalmente, non è mai stato un problema, perché ho sempre detto ciò che volevo. Anzi, in un contesto come quello attuale mi trovo quasi a mio agio.
Poi è paradossale: chi lamenta una presunta mancanza di libertà di parola poi parla più di tutti.
Il problema vero è che la libertà di espressione viene fraintesa: non è un obbligo di parlare. In teoria, uno dovrebbe esprimersi solo se ha qualcosa da dire. Invece, oggi ci sono tante persone che parlano solo per il gusto di dire “ho parlato”. È la logica dei social network applicata alla vita reale: dopo anni di incubazione, ora vediamo persone che si comportano nella quotidianità come se fossero sui social network.
La tecnologia può essere nemica della comicità?
Prima di tutto, bisogna distinguere tra tecnologia, intelligenza artificiale e social network. La tecnologia è tutto, anche un’automobile. Però le nuove tecnologie dei media tendono a creare ecosistemi poco democratici e molto conflittuali, basati sulla divisione e sull'isolamento degli individui. Questo ha portato a una società “tutti contro tutti”, e da questo punto di vista, sì, è un nemico della comicità, in molti sensi. Se parliamo della comicità come professione, vediamo tanti giovani comici che cercano di sfondare puntando tutto sul trovare il reel perfetto per diventare virali, sperando che questo possa lanciare una carriera. Molti di loro sono nati e cresciuti nel mondo digitale e non hanno mai avuto un vero contatto con il pubblico dal vivo. Fare comicità online va bene, non si deve essere chiusi alle novità. Tuttavia, la risata è un'esperienza che vive nel qui e ora: se non hai mai fatto ridere qualcuno dal vivo, poi è difficile farlo quando ti trovi su un palco. Le sitcom americane avevano il pubblico in studio: la comicità esiste sempre in relazione a chi la riceve, e solo dopo può essere trasmessa altrove.
Qual è, quindi, il problema principale dei comici nati online?
Il problema è che creano un tipo di fanatismo caratteristico del web. Gli spettatori che vanno a vederli dal vivo sono spesso contenti solo di averli visti, di aver partecipato, indipendentemente dalla qualità dello spettacolo. Di conseguenza, il livello medio sia degli show sia degli spettatori si abbassa drasticamente. Quando ero più giovane, criticavo i comici come Battista o Brignano perché trovavo la loro comicità troppo semplice, troppo “pop”. Tuttavia, chi andava a vederli rideva e loro riuscivano a far ridere. Ora siamo arrivati al punto in cui un influencer con molti follower si autodefinisce comico, e la gente è disposta a dire che è bravissimo solo perché ha tanti seguaci. Questa degenerazione dei significati è il vero problema: se vado a vedere uno spettacolo comico, vado per ridere, non per sentirmi parte di qualcosa o fare le stories su Instagram. Altrimenti, non vado per la comicità, ma per la sensazione di partecipare a un evento "figo".
Lo stesso discorso vale per altri ambiti dello spettacolo, come la musica. Anche nella comicità c'è l'equivalente dei singoli di Spotify usa e getta, ridotti a tormentoni?
Assolutamente. E aggiungerei che fare il comico è un mestiere difficile. Ora la stand-up comedy va di moda, e ci sono molte persone, anche chi non avrebbe mai pensato di intraprendere questa strada, che improvvisamente si lanciano. Ad esempio, oggi ci sono molte ragazze e ragazzi che, invece di frequentare corsi di teatro, scelgono corsi di stand-up. È un segnale di dove sta andando la comicità. Poi li senti parlare di libertà di espressione e di quanto siano anticonformisti, ma quando li vai a vedere dal vivo non trovi nulla di veramente trasgressivo. Si fanno belli nelle interviste, ma nei loro spettacoli non c'è traccia di coraggio o innovazione. Si limitano a seguire un canovaccio già visto.
Puoi fare un esempio concreto?
Prendiamo la figura della “suocera” di trent’anni fa: una volta c’era l’uomo che faceva battute sulla suocera o sulla moglie. Oggi, invece, lo stesso personaggio è diventato l’uomo impacciato, insicuro, che ha paura di sembrare omosessuale. È solo un adattamento più contemporaneo di uno stereotipo vecchio. Il punto è che fare ridere è difficile, e la maggior parte dei comici non sceglie di fare battute facili per chissà quali motivi strategici: lo fanno perché sono in grado di fare solo quello. Questo magari non è un discorso che va di moda, ma quando sei su un palco, in particolare nel contesto della stand-up, quello che fai rappresenta ciò che sei. Non c’è nient’altro che ti qualifica se non quello che offri al pubblico. Se un comico non è in grado di fare altro che battute prevedibili e luoghi comuni, allora non è una scelta consapevole di essere “pop”. Semplicemente, è tutto ciò che sa fare. E questo è l’unico metro reale per valutare un artista o chiunque cerchi di esprimersi.
Non ci si appiattisce per guadagno, anche se la comicità del tormentone sembra orientata in quel senso, no?
No, non credo sia questione di appiattirsi per guadagnare. Ognuno fa quello che è capace di fare. Chi ripropone le solite quattro cose già sentite lo fa perché quelle ha in testa. Tant’è vero che ora non stiamo vedendo un ritorno del tormentone come fine a sé stesso, ma una riscoperta della commedia dell'arte. Vedo sempre più comici che si esibiscono con imitazioni, vocine, caricature. È una mia fissazione di lunga data: a Satiriasi uno saliva sul palco con nome e cognome perché stava interpretando se stesso. La bellezza della stand-up sta proprio nel fatto che il pubblico sente che chi è sul palco gli parla come a un amico. E quando parli con un amico, quante volte stai a fare voci e vocette? Non è che se vengo a prendermi una birra con te e ti racconto che ho incontrato un siciliano, mi metto a imitare il dialetto [lo dice imitando l'accento siciliano]. Questo aggiunge sempre un tocco di falsità alla performance, e io trovo questa cosa detestabile.
La moda del tormentone non suggerisce un conformismo che è l'opposto della comicità?
Esatto, è conformismo puro. Ma cosa vuol dire essere conformisti? Significa allinearsi alle regole che vanno per la maggiore in un dato momento storico. E oggi siamo nel pieno di una vile esaltazione del vittimismo: tutti cercano di ritagliarsi il loro spazio come vittime, per poter avere quei famosi quindici minuti di notorietà.
In un contesto del genere, qual è il ruolo del comico?
Se un comico diventa conformista, se dice le cose “giuste” senza mai andare controcorrente, tradisce il principio fondamentale della comicità, che è quello di essere fuori luogo, di essere scomodo. Se dici solo quello che tutti si aspettano di sentire, non sarai mai fuori luogo. Noi esaltiamo la commedia italiana degli anni ‘70, come Amici miei o Fantozzi, ma quei film erano feroci, cattivi, spietati. Se vuoi piacere a tutti, finisci per fare un piatto di riso in bianco: va bene per un bambino, per un anziano, per tutti, ma non lascia il segno. Se invece prepari un piatto speziato, qualcuno dirà che è immangiabile, ma qualcun altro lo amerà. Questa è la differenza tra il far ridere e il compiacere.
Far ridere non può coincidere con rassicurare?
Esatto, e il problema è che la comicità rassicurante non fa ridere. E poi c’è un altro punto fondamentale: chi si lamenta di alcune battute, così come obietta sulla loro legittimità, si priva del lusso di avere un vero senso dell'umorismo. Perché il senso dell’umorismo è un rapporto personale con sé stessi. Alla fine, la vita va male per tutti: anche il più ricco e il più fortunato finirà per morire. L’umorismo è ciò che ci aiuta a sopravvivere, è una carezza, un gesto di conforto contro il degrado inevitabile dell’esistenza. Chi si indigna per una battuta “scomoda” dovrebbe invece sforzarsi di andare oltre e dire: ce la posso fare anch'io a sviluppare un mio senso dell'umorismo.
L'autoironia è un’arma potente, anche per neutralizzare le offese. Se sono il primo a definirmi "ciccione" o "pelato", l’insulto perde forza.
Esatto. E sai perché? Perché l’autoironia parte da un concetto semplice: il nemico è allo specchio. Sei pelato, sei grasso? La prima forma di autoironia è accettare i propri difetti fisici, ma poi c’è un livello più interessante: prendersi in giro per i propri difetti caratteriali. Quante persone leccaculo ci sono in giro? È pieno. Ma scommetto che nessuna di loro abbia mai avuto il coraggio di ironizzare su questa propria caratteristica. Lo stesso vale per i tirchi, per i rancorosi. Noi viviamo in una società dove la permalosità è diventata quasi una virtù, quando in realtà resta un difetto. Sempre. E continuerà ad esserlo.
Permalosità e vittimismo sono diventati strumenti di consenso. Anche la politica li usa.
Sì, ma in modo diverso. La destra usa le paure tradizionali: il diverso, l’immigrato, l’Europa cattiva. La tragedia è un'altra. Io odio le definizioni, ma quella della “Sinistra Ztl” è azzeccata: una sinistra borghese che si preoccupa di problemi quasi irrilevanti. Non parliamo delle vittime sul lavoro, perché quelle non fanno audience. Il femminicidio, invece, sì. Perché? Perché ti rivolgi a una platea che è potenzialmente il 52% della popolazione. Si crea così un clima di terrore, come se fossimo di fronte a un'epidemia di uomini che ammazzano le donne, mentre le statistiche dicono altro. Ma la verità, ovviamente, è che anche un solo femminicidio è troppo.
La sinistra, quindi, si trova a portare avanti battaglie che non dovrebbero essere le sue con strumenti inadatti, come la censura.
Sì, e la causa principale è sempre il meccanismo dei social, dove se non polarizzi, non emergi. Se vuoi avere successo, devi dividere le persone. Poi che modelli ha la sinistra oggi? Prendiamo la Ferragni, che è stata spesso associata alla sinistra: è una miliardaria che vola sui jet privati, e dovremmo considerarla un’icona di sinistra? Siamo impazziti. Ma è un esempio perfetto del problema: devi avere qualcuno che ti idolatra e qualcuno che ti odia.
Tornando alla comicità, pensavo alla comicità di destra: esiste, può esistere? C'è qualche comico di destra che vale?
Come dicevo, oggi è difficile definirsi di sinistra senza inciampare in mille contraddizioni, quindi temo che i comici di destra saranno sempre di più e, paradossalmente, potrebbero essere anche divertenti. Di sicuro avranno vita più facile, semplicemente perché a sinistra c’è una parte di pubblico che rompe i coglioni per principio. L'idea alla base di Satiriasi era proprio quella: veicolare contenuti di sinistra con un linguaggio di destra. Era questo il trucco. Adesso, se prendi un ventenne che non ha idea di cosa siano destra e sinistra, ma è bombardato da slogan e polemiche, probabilmente troverà più ragionevole uno di destra moderata rispetto a uno di sinistra che gli rompe i coglioni su cose che lui non percepisce come problemi.
Parlando di comici di destra viene in mente Palmaroli, l'autore di Osho, anche se lui si occupa di meme. Cosa pensi dei meme in generale?
Ho avuto occasione di bere una birra con Filosofia Coatta, che trovo molto bravo e molto originale. Mi ha raccontato che non sapeva disegnare, quindi non poteva fare vignette, e i meme sono diventati il suo modo per esprimersi. Certi meme, specialmente quelli ben scritti come i suoi, richiedono un lavoro di scrittura, quindi sono tutt'altro che facili. Poi è ovvio, ci sono i meme stupidi con Trump o con John Travolta che fa facce buffe, ma la comicità è sempre stata così: su più livelli. Non vedo niente di male nel ridere, anche perché oggi la gente ride poco, è incazzata. Se si riesce a farla ridere, va più che bene.
Ma si ride davvero sui social? Quando metti una faccina che ride, stai ridendo davvero?
No, hai ragione. Ma qui il tema è più ampio: che effetto hanno i social network sulle persone? Pensa a questo: oggi il prodotto più popolare è il podcast, ovvero gente che parla per ore senza aver molto di importante da dire. Il podcast è il ronzio di sottofondo che impedisce all’ascoltatore di guardare dentro l’abisso della propria vita, di riflettere su se stesso.
Il nuovo rosario, insomma.
Esatto, il nuovo rosario. Io cerco di ascoltare più cose possibili, sia per lavoro che per curiosità, e mi rendo conto che presto il problema sarà: i cachet degli ospiti, li vogliamo cominciare a pagare o no? Ormai la maggior parte dei podcast funziona solo se c'è l'ospite giusto, quello che fa fare il botto alla puntata. Nel momento in cui manca l’ospite sensazionale, la puntata vale zero.
Si paga tutto in visibilità.
La visibilità è la moneta con cui il potere ti ha sempre pagato senza sborsare un euro.
Ma oggi il potere è più diffuso.
Il potere ora è ovunque, ed è meno visibile anche più voluminoso di prima. I cosiddetti Big Five (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft), hanno convinto tutti a diventare i loro agenti. Tu vedi il podcast di un tizio qualunque e pensi: “Che simpatico, gli voglio bene!”. Ma il punto è che i social non si possono usare altrimenti, perché esistono solo per darti dipendenza. L’obiettivo dell’algoritmo è farti rimanere più ore possibile lì sopra, una pubblicità dopo l’altra.
Tu passi il tempo sui social o no?
Io sono un grande ascoltatore di YouTube. E lì, specialmente nei programmi un po' più strutturati, ti sparano la pubblicità proprio sul cliffhanger, sul più bello. L’intervistato dice: “No, perché poi quella volta ho fatto...”. E proprio in quel momento parte la pubblicità. Rimani come alla fine dell’episodio di una serie TV, con la voglia di sapere come va a finire.
Un trucco che usavano anche in TV, ma oggi è più raffinato.
Sì, c’è stata una velocizzazione devastante della potenza dei media. Prima c’erano i presentatori, come Gerry Scotti o Mike Bongiorno, che avevano un grosso potere sul pubblico anche se li vedevi solo mezz'ora, un’ora al giorno. Ti immagini il potere che hanno i media oggi? Pensa a uno come Alessandro Di Battista: è uscito dai 5 Stelle e ha aperto un canale YouTube dove catechizza il pubblico ogni giorno con le sue idee bislacche, per 30-40 minuti di fila. Capisci il potere che ha? Non è più solo una questione di marketing o di venderti qualcosa: stiamo creando una società chiusa formata da piccoli gruppi, in ognuno dei quali c’è un furbacchione che comanda.
Il potere si è frammentato senza mai decentralizzarsi davvero.
Esatto. E gli Stati non possono fare nulla contro un’azienda globale come Meta. Ormai non si può più fare a meno dei social network, ma bisognerebbe dirlo chiaro: sono pericolosi. Io fumo sigarette perché sono scemo, ma almeno la società mi dice che fanno male. Anche i social network fanno male, ma nessuno ti avvisa. Anzi, adesso il web è pieno di anime belle, di influencer positivi, di personaggi che dicono di essere dalla parte del giusto, di essere giornalisti indipendenti o attivisti che difendono gli ultimi. Ma alla fine sono solo persone che partecipano a un meccanismo per avere denaro, fama e successo.
Se la critica alimenta il sistema, non potrà mai funzionare. Mi hai fatto venire in mente Tlon.
Certo, parliamo di Tlon. Quante storie fanno al giorno? Sono a tutti gli effetti degli influencer. Bisogna capire che il mezzo ha un potere in sé, indipendentemente dall’utilizzo. I social non sono come la candeggina, che se la usi per pulire va bene ma se la bevi muori. No, qualsiasi utilizzo dei social è nocivo e discriminante: arricchisce pochi e impoverisce molti. Con Andrea [Colamedici, di Tlon] ci ho fatto delle belle chiacchierate, ovviamente non è un attacco alla persona. Ma se ti metti in mezzo a un campo da hockey non puoi dire che non stai giocando a hockey, anche se durante la partita ti metti a urlare: "Salviamo le donne, salviamo il pianeta, salviamo le persone". Secondo me tutti arrivano a un punto in cui pensano: "Ma devo essere proprio io a salvare il mondo? Vabbè, magnamoce."
La questione San Giuliano-Boccia: materiale comico o politico?
Il comico non dovrebbe essere cinico, ma disincantato. Da persona disincantata, una bella ragazza che si mette con un politico è la storia più vecchia del mondo, succede a destra come a sinistra. Non c'è niente di nuovo. Se creiamo una società in cui ogni due o tre giorni deve esserci un nuovo trend di cui parlare, ogni evento diventa una scusa per far gridare qualcuno.
Soprattutto se l’evento in sé era gossip.
Esattamente. Dimettersi è stato giusto, ma mi è sembrato tutto l’ennesima esasperazione, l'ennesima battaglia politica dove ognuno fa il proprio gioco.
Il brutto è che c'era di mezzo il Ministero della Cultura: Alessandro Giuli come lo vedi?
Giuli è un fedelissimo della Meloni. A destra non si dimenticano degli amici, su questo sono compattissimi. Se uno sale, tutti lo seguono. Quanto alla questione della laurea, non credo nel valore assoluto del titolo di studio, ma per fare il Ministro della Cultura, una laurea o un master li dovresti avere.
Tornando ai comici: sono nemici della comicità?
Il comico per sua natura è opportunista. Subisci tante umiliazioni in questo mestiere che, alla fine, diventi un po' stronzo. La psicoterapia può aiutare, ma è un lavoro duro. Un cantante che perde la voce rimane comunque un musicista, ma un comico che smette di far ridere diventa patetico. La paura di non far ridere è costante. In questo ambiente tutti sono nemici di tutti, ognuno pensa a se stesso. Io, se frequento comici, preferisco i giovani: sono creativi e brillanti, finché non invecchiano. Quando crescono, meglio lasciarli perdere. Me compreso.
C'è un comico che ti piace particolarmente?
Ti faccio dei nomi poco noti: Andrea Saleri e Alessandro Canori. Sono giovani e davvero forti. Se devo scegliere una donna, direi Stephanie Aiello, ha iniziato da poco ma ha un grande talento. Come in Saranno Famosi: "remember her name". Tra i giovani ce ne sono tanti, come Lorenzo Siciliano, che ha 25 anni. Però spesso non capiscono che la comicità è una maratona, non i 100 metri. Fai uno spettacolo, poi ne devi fare un altro e un altro ancora. Se ti fermi, finisci a fare altro: l’attore, l’autore TV, i podcast. E poi, parliamo di pubblicità: una volta volevi fare l’artista, non la pubblicità. Ora è tutto una gara. Mi devo calare le braghe per pubblicizzare la ketamina? Sì, basta che mi pagano e lo faccio.
Parlando di "vocette" pensavo a Max Angioni, che ha fatto il botto con le sue imitazioni.
Angioni fa vocette e pubblicità, ma è una persona coerente. Forse è l’unico comico di cui non riesco a parlar male. Ha sempre fatto il suo, senza vendersi per ciò che non è. Ha talento e sta facendo cassa, più che può. Lui è pop, e non ha mai preteso di essere altro. Non lo vedrai mai filosofeggiare sulla comicità o sulla libertà d’espressione.
Cosa pensi del fenomeno Lol?
Next. Incommentabile.
Michela Giraud?
Andiamo avanti, andiamo avanti, per carità.
Lo stesso Lillo ha detto di essersi un po’ stufato.
Se a Lol ci metti dentro quindici commercialisti fai ridere di più. Se provi a farlo con i tuoi amici, funziona, non con i comici di mestiere. Quindici notai dentro una stanza, sì che farebbe ridere. Con i comici non può funzionare, mi fanno tenerezza per certi versi.
Passiamo allo spettacolo: perché hai scelto "Cabaret" come titolo?
Sono un po' cagacazzo, lo ammetto. Ora va di moda la stand-up comedy. Se ne parla in Italia grazie a noi di Satiriasi, che nel 2009 abbiamo iniziato a farla conoscere. Ora è diventata tutt’altro: battute cattive su argomenti pesanti, vocine, banalità borghesi. "Cabaret" è una provocazione contro la piega che ha preso la stand-up. Se questa è stand-up, allora preferisco dirmi cabarettista. Paradossalmente, adesso mi trovo a rivalutare persino comici come Brignano e Battista, che ho criticato a morte in passato: almeno loro fanno qualcosa di buono.
Brignano ti fa ridere? A me no, per esempio.
L'ho visto nei primi anni '90 in un locale, raccontava della sua vita e della madre, ed era divertentissimo. Però, se non hai un'evoluzione personale e culturale, rischi di fare sempre la stessa roba. Detto questo, ci sono migliaia di persone che comprano i biglietti per i suoi spettacoli. Ha persino messo le ballerine. La gente è contenta così, che ti devo dire.
Parlando di stand-up contemporanea, mi viene in mente Giovashow, quello che fa gli anagrammi con le bestemmie.
Io odio i termini in inglese, ma questo è un guilty pleasure: come fai a non ridere? Le bestemmie mi hanno sempre fatto ridere, però non so se riuscirei a seguire uno spettacolo intero. Per i primi 15 minuti magari mi piego dalle risate, dopodiché potrei annoiarmi. Dovrei provare. Ma oggi tutti fanno spettacolo. Pamela Anderson qualche anno fa decise di debuttare a teatro, non l’aveva mai fatto. Ho visto una serie su Netflix che racconta questa storia: Pamela che fa le prove in un piccolo teatro a Broadway, davanti a cento persone. Lei avrebbe potuto fare un teatro da cinquantamila spettatori, ma ha portato rispetto al mestiere, partendo da zero. Invece Cattelan debutta con il suo one man show agli Arcimboldi davanti a 3.000 persone.
Sì, poi Cattelan è in delirio di onnipotenza: editore di libri, cinema, presentatore, ballerino, speaker.
Se hai un certo seguito la gente ti viene a vedere, a prescindere. Ed è per questo che bisognerebbe far riflettere le persone su ciò che vedono, in ogni campo: dalla comicità al cibo. I trend non funzionano bene, tutti si buttano sui personaggi solo perché sono popolari. Se sei popolare, sei fico. Una volta la popolarità era una sventura, e si cercavano di evitare le pubblicità o le apparizioni inopportune.
Però magari la gente si avvicina al teatro grazie a questi personaggi. Che ne pensi? Magari uno inizia con Cattelan e finisce con Plauto.
Il fatto che qualcuno vada a teatro non è di per sé positivo. Io quando vedo le stories su Instagram pubblicate durante lo spettacolo a teatro inorridisco. Gli smartphone dovrebbero essere sequestrati all’ingresso. Si dovrebbe dire al pubblico, come faccio io: "Spegnete i telefoni sennò vi bestemmio in faccia." Se vai a teatro e spegni il telefono per goderti lo spettacolo, questo è positivo, poi magari col tempo maturi un gusto personale. Quello che mi dà fastidio è che nella musica quasi tutti hanno un gusto, discutibile o meno. Ciascuno ha un suo genere preferito. Per quanto riguarda la comicità invece non è così. A nessuno frega nulla della comicità. Eppure la risata è qualcosa di bello, difficilmente c'è un brutto ricordo legato a una risata. È un momento che fa bene a tutti, anche chimicamente.
Chiudiamo con questa frase che ho preso dal tuo spettacolo: "Dietro ogni femminicidio c'è un artista mancato." L’arte, come la comicità, può salvare?
Quella era solo una bellissima battuta. Stavo parlando degli uomini violenti e del famoso not all men, dicendo che è ingiusto criminalizzare un intero genere per colpa di una parte. È inutile rivolgersi alla cultura maschilista o patriarcale: gli uomini violenti picchiano anche altri uomini, ed è per questo che sarebbe meglio imbastire una battaglia comune tra le donne e gli uomini non violenti. Nel contesto della battuta mi rivolgevo alle donne e dicevo: ma perché non smettete di amarli, i violenti? La cosa che mi colpisce è che gli uomini violenti non diventano tali all’improvviso, e credo che i casi di raptus siano pochi. Le persone violente si riconoscono da come parlano, da come si comportano. Facevo l’esempio di Beatrice, la musa di Dante – ovviamente una cazzata – che capisce da subito che lui era un pazzo ossessivo compulsivo. L’ha amato? Col cazzo: è scappata, e lui ci ha scritto la Divina Commedia.
Ci ha fatto un pippone in rima.
Dante era una persona disturbata.