A 50 anni di distanza (per l’occasione la pellicola è stata restaurata in 4k e Dolby Atmos) non sarebbe più possibile girare un film come “Non aprite quella porta” (The Texas Chain Saw Massacre) di Tob Hooper (che insieme a John Carpenter e George Romero ha creato un archetipo cinematografico oggi completamente disinnescato). Dice: ma se le sale e le piattaforme sono piene di film che “rifanno” quel modello: stessa struttura, stesse ambientazioni, stesso furgoncino. Certo. Ma per comprendere quello che cerco di dire dovete considerare persino “Venerdì 13” come una decadenza “teen” di un cinema che è apparso e subitaneamente scomparso nella sua folgorante efficacia. Persino con “Venerdì 13”, voglio dire, che è del 1980, è iniziata quella lettura “nostalgica” che ha depotenziato “Non aprite quella porta” della “realtà” (non parliamo di “verità”, la verità è un’altra cosa, e viene “dopo” qualunque massacro) che “filmava” in maniera impeccabile. Questa operazione “nostalgia” sta avendo il suo culmine proprio in questi anni, con il capolavoro dei Duffer Brothers, “Stranger Things”, che viene relegato, appunto, nella dimensione nostalgica degli anni ‘80, senza comprendere che è una nostalgia di una nostalgia che affonda il suo archetipo negli anni '70 come reazione agli anni '60. Cerco di spiegarmi. Se vi va.
Per comprendere cosa ha significato “Non aprite quella porta” e perché si sia conficcato nell’immaginario in maniera tale da rimanervi anche quando ha perso la sua potenza nella lettura non di “quella” bensì della “nostra” società, del “nostro” tempo, dovreste calarvi, in maniera sciamanica, in quel periodo, avere vissuto la rivoluzione sessuale, il Vietnam, il movimento hippy, le comuni rurali. Film e libri aiutano. Ma se non si arriva al fondo di “Non aprite quella porta” è tutto inutile. E per farlo dovreste metterlo in parallelo con il suo film gemello: “Easy Rider”. Il mondo sognato dal ‘68, la “comune” e “rurale” fuga dal capitalismo cittadino, il sogno lisergico di un mondo fatto di pulmini Wolkswagen (il “Bulli” T1 o T2), campi di grano e ragazze dai capelli lisci e biondi con le tettine libere sotto le canottiere a costine che corrono al ralenti con le perline sulla fronte: Woodstock fu la patria dei dei pipparoli, anche se nessuno lo dice, maschi borghesi con il sogno “turistico” di farsi le “scappate di casa” – molte delle quali confluiranno nell’industria del po*no degli anni '70: vedere “Boogie Nights” o “Wonderland” e in generale la storia di John Holmes, di Gola Profonda o di Charles Manson. Ecco: questo sogno, o “incubo” era destinato a scontrarsi con la realtà della “ruralità”, fatto da conservatori che sparano ai motociclisti e da Charles Manson. Ecco, se pensate ai massacri di Charles Manson, che aveva creato la sua comune rurale allo “Spahn Ranch”, potreste iniziare a capire che “Non aprite quella porta” non fu soltanto un film horror, un capolavoro horror, così come vogliono farci credere. Era un film “verista”, “neorealista”, e mi fanno sorridere tutti gli americano che citano a memoria “Rossellini, Visconti, De Sica” quando potrebbero dire “Hooper, Romero, Carpenter” – notare come il neorelaismo italiano confluì nella commedia all’italiana come l’horror indipendente americano confluì nella commedia horror adolescenziale, da “Scream” in giù. “Non aprite quella porta” era il cattivo sogno rivoluzionario hippy che impattava con la realtà bestiale della “ruralità”, dove non c’è il “selvaggio buono” e dove la “natura” non è quella dimensione che abbiamo dimenticato, ma un luogo dove gli animali si mangiano a vicenda.
Oggi, in tempi woke e perbene, in tempi ecogreen, in tempi di ritorno all’agricoltura, in un’epoca in cui le città scoppiano mostrando il loro vero volto di sfruttamento capitalista, è possibile dire che siamo tra l’incudine e il martello? È possibile una narrazione che non lascia via di scampo tra una dimensione metropolitana fallita e una rurale feroce? Perché questo ci raccontava “Non aprite quella porta”, un viaggio rurale, un’avventura di libertà, in cui si “filmava” una natura di teschi di animale, di odore di putrefazione, di denti marci, di cannibalismo, di mostri, ossia la “natura” per quella che realmente è e che gli hippy, troppo strafatti per comprenderlo, avevano idealizzato. E non si può comprendere l’essenza del “mostro”, di Leatherface, se non si mette in parallelo con “Easy Rider” e con la vicenda di “Charles Manson”. Leatherface è un “mostro” horror o la fedele rappresentazione della realtà? Il punto di unione tra Charles Manson e il “redneck” (o l’hillbilly) conservatore? (J.D. Vance viene da una comunità di hillbilly). Questo per dire che forse dovreste rivederlo, “Non aprite quella porta”, non come un film horror dei tempi andati, per quanto, come si dice con un termine orripilante, “seminale”. Ma come un racconto perfetto di questa epoca. Un capolavoro che oggi, in epoca di politicamente corretto, sarebbe impossibile da filmare. Probabilmente è anche per questo, che il mio nuovo romanzo, “Pastorale Siciliana” non trova editore. Perché si situa esattamente tra "Easy Rider" e "Non aprite quella porta". Ambientato nei giorni nostri. Nella Sicilia turistica del Sud-Est mentre la siccità avanza e i teschi mangiati dai vermi sbucano dalla terra.