Ma ve la ricordate quella pagina social che postava messaggi di empowerment femminile, dichiarazioni di attrici, vignette all'acqua di rose sulla vita da donne? Era Freeda, la pagina del femminismo in chiave pop: fondata nel 2017, dopo otto anni, ella fu. Le pubblicazioni infatti, si fermano allo scorso 24 giugno con una partnership sponsorizzata, pietra tombale che ne spiega sia il successo che la caduta nello stesso, ultimo, post. Intanto, ha scaldato per bene i motori thePeriod. Freeda non aveva alcun sito di riferimento, solo profili social: tutto molto smart, tutto molto millenial. E anche tutto molto paraculo, visto che la società di riferimento era Ag Digital Media. Cioè un'azienda fondata da Gianluigi Casole, che ha lavorato per Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi, e da Andrea Scotti Calderini, ex di Publitalia 80, concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset. A forza di reel e caroselli cuorati ovunque da chiunque, Freeda ha infestato il web di messaggi banali che se nel 2017 sembravano pure femministi, con il passare degli anni, si sono rivelati una mera posa. Ma soprattutto, si sono dimostrati poco credibili: come si può essere femministe e non parlare di divario salariale, carico del lavoro di cura, tetto di cristallo, mancanza di sussidi per le mamme, la rete familiare come unico sostegno per chi ha figli, la difficoltà nel concilire lavoro e famiglia? Puoi, se la tua pagina raccoglie utili collaborando coi brand più famosi. È il marketing che si mette il mantello dell'attivismo, dell'impegno sociale, per smarchettare ancora meglio. È il modello che tanto piace alle influencer che si lanciano in messaggi sull'accettazione di sé, ma poi subito, nella storia successiva, codice sconto e clicca qui per acquistare. Quando è arrivato il Covid, l'inflazione alle stelle, contenuti come le vignette sulla ragazza che ha sempre caldo o il reel sul “non esiste un modo di vestirsi sbagliato”, non bastavano più: Freeda si è scoperta superficiale, mentre intorno il mondo brucia e il potere d'acquisto scende vertiginosamente. Il pubblico stesso, è più esigente: gli slogan non bastano più, i brand delle sponsorizzate vengono messi in discussione. In mezzo, c'è anche l'impiccio del pandoro ferragnesco, che mette in pessima luce l'attivismo da social e lo svela come un mezzo per fare personal branding anche ai non addetti ai lavori.

Tutto questo lo ha capito benissimo invece thePeriod, che aspettava al varco la fine del femminismo prêt-à-porter. Nato nel 2019, si tratta del progetto fondato dalla giornalista Corinna De Cesare. Dettaglio questo non da poco: la De Cesare infatti, in quanto appunto giornalista, ha dato alla sua creatura un taglio informativo, polemico e arrabbiato all'occorrenza. Fondato come newsletter dal 2019, dal 2024 è una start up media che include podcast e la pubblicazione di un libro. L'obiettivo è quello di analizzare società, attualità, cultura e tutto l'analizzabile, da un punto di vista femminista. thePeriod si mette il coltello tra i denti e prova a guadare le sabbie mobili su cui si è impigliata Freeda: i contenuti social sono gratis, ma produrli è un lavoro. C'è la pubblicità, ma i follower la giustificano solo quando è di brand etici: solo che i brand etici spesso non hanno i soldi, e quelli con i soldi spesso non sono etici. Se Freeda chiude, scrivono a thePeriod, pure qua non è mica questo Carnevale di Rio: loro non sono mica “una multimilionaria piattaforma fucsia con le risorse di maschi ricchi che fa empowering per vendere pubblicità”. A differenza di Freeda, rispetto a cui si posiziona in opposizione, thePeriod ha colto il bisogno di andare più in profondità sui temi: meno follower, ma più fidelizzati. I numeri del resto, sono ben diversi: 1,7milioni di follower per Freeda su Instagram, 130mila per thePeriod. Il progetto di Corinna De Cesare si sostiene per gran parte con le consulenze, ma anche con l'abbonamento alla newsletter, perciò anche l'appello alla sottoscrizione chiama in causa Freeda: “Aiutaci a non diventare un Frankestein delle lotte comode e delle posizioni inoffensive al servizio di pubblicità e aziende!” Seguire Freeda, scrivono, “era come raccogliere femminismo in pillole, coriandoli dai colori vibranti, una pioggia di biglietti stile Baci Perugina con sopra messaggi tanto ben pettinati quanto poco incendiari”. Perché, sfottono, “era chiaro che messaggi tipo 'sei libera di tenerti i peli, ma se vuoi depilarti compra questo rasoio' non avrebbero cambiato le sorti delle donna di questo Paese”. Paese che in questi ultimi anni è molto cambiato, più arrabbiato e disilluso che mai: non rimodellare la propria comunicazione, i suoi messaggi, è stato l'errore di Freeda. Adesso che però lo spazio è rimasto vuoto, ora che “il più grande esperimento pubblicitario del decennio ha gettato la spugna”, il momento è propizio per thePeriod. È l'evoluzione del femminismo via social? Di certo è l'evoluzione dell'attivismo via social: quando i follower diventano più consapevoli, la nuova moneta è la credibilità.
