Luca Barbareschi si racconta senza filtri in un’intervista ad Arianna Finos per Repubblica e ne esce il ritratto di un uomo provato, stanco, ma ancora combattivo. A quasi settant’anni e con cinquant’anni di carriera alle spalle, l’attore e regista fa un bilancio spietato: "È stato un anno faticoso", dice. "Ho avuto quattro fratture alla spina dorsale e mi sono dovuto fare una protesi al ginocchio". La caduta in moto, l’intervento, il dolore fisico sono solo la superficie. La delusione vera è quella emotiva: “La gente si fa viva solo quando le offri qualcosa da fare. Nemmeno le figlie: non 'ciao papà, come stai?', ma 'quanto mi dai?' o 'cosa mi fai fare?'”. L’uomo che ha prodotto film, fiction, dato lavoro a migliaia di persone, oggi si sente dimenticato. Attacca i colleghi: “Mi hanno usato tutti per fare i film, da Sergio Castellitto a Sergio Rubini. Ma quando ho avuto difficoltà, mai una telefonata di conforto”. Rivendica la propria indipendenza, “non faccio parte della politica, è chiaro: se no mi vedreste pieno di cariche”, e individua nella sua identità ebraica una delle chiavi della sua scomodità: “Noi ebrei abbiamo un modo di pensare che è, per natura, divisivo. Nell’ermeneutica, a una domanda intelligente devi rispondere con un’altra domanda, per non offendere l’intelligenza dell’interlocutore. Non è Milan o Inter. Tu, di default, dici: il Chievo? E stai subito sulle scatole”. Ma Barbareschi non si ferma, è ancora in prima linea: al cinema con "Paradiso in vendita", a teatro con "November", impegnato con un podcast di successo ("Il Talmud per tutti") e ancora immerso nello studio del pianoforte e della direzione d’orchestra. “Vorrei la salute”, dice, “perché senza quella non funziona nulla. E poter continuare a suonare”.

Non mancano i retroscena da copertina.
Barbareschi racconta l’incontro da ragazzo con Steven Spielberg: “Avevo 19 anni, lui 29. Gli chiesi: 'Come faccio a diventare come te?'. Mi rispose: 'Tu sei come me. Devi solo decidere quando diventare ciò che pensi di poter essere'”. Da lì nasce il suo primo film, Summertime. Parla con orgoglio del podcast e attacca chi invecchia senza evolversi: “Credo che la funzione di un uomo sia crescere i suoi figli e sé stesso, non invecchiare inutilmente”. Confessa che vorrebbe tanto festeggiare il compleanno con la figlia Angelica: "La più geniale, la più simile a me. Che mi odia, mi manda strali di morte. Se sapesse quanto la amo...". Poi precisa: “Voglio che lei sia felice, ma che si mantenga. Perché a trent’anni bisogna mantenersi. Ognuno è l’artefice della propria vita”. E a sorpresa arriva anche Checco Zalone, definito “un genio assoluto”. Barbareschi lo porta a Parigi con Polanski, per inserirlo nel film The Palace, ma Checco rifiuta: “Io sono Checco Zalone. Checco è come Pulcinella, Arlecchino, è una maschera. Non posso entrare nel 1999, perché non c’era. Rovinerei il film”. E infine, il colpo di scena: “Molestie a parte, sono anch’io un bravo regista”, dice Zalone a Polanski. “Io rabbrividisco e traduco una frase diversa”, racconta Barbareschi, “ma Polanski capisce tutto e gli risponde: 'You are a great guy'”. L’intervista si chiude con parole cariche d’affetto per il regista novantatreenne: “Roman è stato l’uomo più geniale, affettuoso, gentile, corretto che abbia mai conosciuto. E a cui hanno distrutto la vita”.
