Che ne sarà di noi, appassionati modellisti della democrazia, perfino modello base, giusto i minimi diritti di cittadinanza e un doveroso sentire antifascista, laico, quando l’attuale residente del Colle, Sergio Mattarella, dovrà lasciare le stanze del Quirinale al suo possibile sostituto, si spera altrettanto garante della Costituzione? Chi, insomma, si prenderà cura, nel tempo della post-verità e dell’irrituale Donald Trump, ormai modello globale di scomposta narcisistica postura dilagante anche in sedi un tempo rispettabili, delle ormai ritenute ingombranti “istituzioni democratiche”? Personalmente, ritengo, e non sembri un paradosso, di custodire un nome, una soluzione, un volto sicuro, garantito, sì, che ce l’ho, e, ripeto, non sembri un paradosso extra-professionale e neppure una boutade di quelle che vengono pronunciate tanto per dire. D’improvviso, ecco, mi sono ricordato del talento di Roberto Benigni, il medesimo signore che anni addietro, assai prima che si desse al cinema con esiti, almeno i miei occhi, assai modesti riusciva a brillare per vivace sensibilità “civile” e insieme ludica; e adesso non si dica che un Oscar possa fare primavera, titolo, commenda che consegni chissà quale valore, perché, se proprio spiegare tutto, ho sempre pensato che “La vita è bella” banalizzi la Shoah, ma non è questo il punto, andiamo allora avanti, proviamo semmai guardare la persona, l’uomo, il professionista ben oltre la superficie la pellicola delle cose. Lì sotto infatti è certo che Benigni sappia appunto brillare, possa riservare a tutti noi, nel lato B del suo impegno professionale, la risposta alle nostre inquietudini; mi riferisco sempre a chi reputi che i valori repubblicani, lontano da ogni populismo straccione da punto scommesse, meriti d’essere salvaguardato, protetto, innalzato come garanzia di sincera cultura istituzionale.

Per questo, apparente paradosso o meno, reputo che proprio lui, l’ex comico, l’ex “giullare” Benigni potrebbe essere uno straordinario presidente della Repubblica… Lo vedo già, perfetto, sulla scalea del Vittoriano a commemorare ora il 2 di giugno ora, metti, a Boves o in casa Cervi, a pronunciare parole adeguate e persistentemente resistenziali nei prossimi 25 aprile.
Ma andiamo con ordine nel fornire le doverose e necessarie pezze d’appoggio morale e perfino politiche al nostro suggerimento: credo fosse il Festival della satira politica, a Forte dei Marmi, ormai molti anni fa, sul finire dei ‘70, lì Benigni era stato invitato insieme alla banda del “Male”, il giornale satirico di Vincino e compagni, e a Leonardo Sciascia, a sua volta premiato, dove lui, proprio Benigni, accogliendo il premio, improvvisando come pochi sanno fare, volle raccontare di una censura appena subita lavorando nel servizio pubblico, immagino il riferimento riguardasse “Tele Vacca”, citando un direttore di rete, tale Fichera, aggiungendo una frase che mi risuona ancora adesso perfetta: “… ma lei, con quel cognome, come può pensare di censurare me?” Gli applausi risuonarono scroscianti, da stadio, da sambodromo, ed era già allora un’investitura. Ripeto: Benigni non è il cinema che lo ha poco dell’ombra di sé stesso, della sua verve, della sua intelligenza istintuale e insieme nutrita di letture esemplari. D’altronde, se Zelensky, un ex comico perfino da “Zelig” versione ucraina può concedersi di diventare una figura eroica, in grado di figurare sull’altare tragico della storia sotto una pioggia di obici, al pari di Salvador Allende, cosa potremmo esserci di ostativo nell’immaginare Roberto sulla “Flaminia” presidenziale lungo di Fori Imperiali durante la parata della più alta ricorrenza repubblicana? O c’è forse qui qualcuno che vorrebbe tale compito affidato a Ignazio La Russa con i suoi memorabilia di Mussolini in salotto o, che so, al già monarchico Tajani maestro di tentennamenti sull’intero scibile governativo?
Sempre qualche anno fa, sempre personalmente ironizzando sulla china “ecumenica”, o forse sarebbe meglio dire “parrocchiale” del nostro, mi sono ritrovato a scrivere che a Benigni mancava ormai giusto un cinepanettone: nel suo caso, ho immaginato che potesse intitolarsi “Natale sul Golgota”. In realtà, ritrovando le mie parole nel cassetto del desk ero ancora più puntuale. Immaginavo da lui una pellicola penitenziale intitolata “Natale sul Sinai”, un telepanettone tecnicamente appropriato per un Premio Oscar, presto anche Premio Cei, destinato a un sermone a reti unificate e finalmente, e soprattutto, moralizzate, ai bisognosi di maiuscole teologiche, di scenari assoluti e toccanti non meno televisivi nazionali.

Esatto: Dio, Rai, Audience, Famiglia, Narrazione, Misura, Emozione, Sobrietà, Commozione, Cilicio, Inginocchiatoio, Confessionale, Approvazione ecclesiastica con tanto di riferimento alla Bibbia della Cei, ossia garantita, appunto, dai memorabili, intoccabili, improbabili vescovi italiani, e ancora, planando sul boschetto di braccia tese nella retorica dell’etica famigliare e dell’onesto lavoro, ecco il Ricordo del Padre che zappava l’orto laggiù in Toscana e intanto discuteva con Don Tasselli, il caro prete, dunque anche un riferimento, sia pure in filigrana, alla struggente e non meno cara leggenda di Don Camillo e Peppone finalmente riconciliati, allo strapaese cattolico, con vista sul refettorio salesiano, al genitore pio e laborioso frequentatore della Casa del Popolo perché, come già pensava qualcuno, è ora e sempre il compromesso storico, bellezza! E ancora, sempre lì, nel medesimo telepanettone sempre più con approvazione ecclesiastica e perfino consulenza dei poeti ufficiali della sinistra, ecco perfino una finestrella, uno spioncino, una bocca di lupo sulla cronaca spiccia, così, giusto per introdurre l’oglio delle battute davanti al pubblico in sala, battute da parte del comico emendato d’ogni volgarità, d’ogni desinenza in “accio”, che fanno comunque sempre il loro bell’effetto, dài, sul presente.
Mi riferivo al Benigni che, sempre tecnicamente, attorialmente, curialmente parlando, da cui avevamo ricevuto una straordinaria maratona sui Dieci comandamenti, attenta, meticolosa, supportata dalle note personali dell’attore e insieme dalle note a piè di pagina di incunabolo di coloro che la Bibbia l’hanno studiata in modo sistematico, l’hanno rivoltata come si fa, appunto, con il grande calzettone immacolato e libero da ogni possibile tanfo di Dio, dell’Innominabile. Una prova di tenuta, che tuttavia tanto più era grande e imponente e perfino michelangiolesca, quanto più andando avanti nei dettagli e nel racconto e perfino nella chiosa, faceva scatenare nell’intimo l’incendiario, l’anarchico, l’iconoclasta che dimora dentro ognuno di noi, faceva venire appunto voglia di gridare contro lo schermo. Oh, povero senso dell’ironia calpestato dal figliol prodigo Roberto.
Era accaduto al momento del racconto del roveto, con la voce di Dio che sembra chiamare Mosè per affidargli l’alto incarico di salvare il suo popolo, è stato esattamente in quell’istante che il racconto di Benigni mi è sembrato simmetrico all’incubo della programmazione televisiva che il Servizio pubblico del tempo delle grisaglie democristiane accompagnate da occhiaie degne d’onanismo segreto donava ai bimbi, quando nei giorni della cosiddetta Settimana santa di Pasqua ogni sorriso veniva spento dalla musica per violoncello solo, dai canti della Passione, dai film dei centurioni infami torturatori di poveri cristiani, è stato a quel punto che mi sono tornati in mente i film con i leoni che sbranavano proprio gli antichi fedeli di Gesù, così l’incubo dell’infanzia mostruosamente cattolica. Dimenticavo, mi è tornato perfino in mente quando a scuola una prof stronza mi aggredì perché “Abbate, ma tu non sai neppure fare il segno della Croce, lo dirò subito al collega di religione, lo farò presente anche ai tuoi!”. Scema, avrei dovuto dirle, i miei genitori tra il suo Dio e il tagliaunghie non hanno dubbi, il Trim.
A metà solfa di Benigni sarei uscito in strada cercando nel buio della sera il triste gazebo dei non meno pietosi Atei materialisti per ritirare l’apposito modulo per lo sbattezzo, magari abbracciandoli in lacrime. Bravissimo, davvero bravissimo Benigni, devo ringraziarlo per avermi ridato la voglia di urlare “né dio né padroni” rivolto alla tromba delle scale. Né capistruttura, dimenticavo.
Alla fine, restando in tema di Dieci comandamenti, andando a letto, mi è tornato in mente ciò che si narrava del povero Reagan ormai preda dell’Alzheimer, sembra che l’ex presidente, incontrando il già collega Charlton Heston nel 1995, gli abbia chiesto come andassero gli incassi del film omonimo di quasi quarant’anni prima, dove appunto Charlton vestiva la barba di Mosè, e quello: “Bene, Ronald, siamo in testa”. Spero che questo pietoso aneddoto abbia il potere di liberare un sorriso davanti al supplizio avuto in dono dal caro Roberto e il suo “Natale sul Sinai”. La parabola di Benigni? Da comico a esorcista. Eppure…
Eppure, nonostante la sua cifra curiale che ha assunto, dove le letture della Costituzione che nel suo caso, spiace dirlo, sembra scritta non da Umberto Terracini semmai da Carolina Invernizio. Eppure sotto questa coltre, questo plaid di banalità da “pidocchietto” dove si programmano i film di Marcellino Pane e Vino, so per certo che Benigni custodisce una sua straordinaria, chiamiamola pure kriptonite liberatoria, un talento supersonico, lo stesso che ce lo fa rammentare quando faceva il critico cinematografico a “L’altra domenica” insieme a Renzo Arbore, la lampada intermittente lì davanti, e lui stralunato, una sorta di nostro Buster Keaton insieme Woody Allen, Benigni di “Berlinguer ti voglio bene“ e ancora del tempo dei suoi giorni insieme agli amici Donato Sannini e Carlo Monni, nella Roma del finire degli anni ‘70, tra via Ruggero Bonghi e l’estate romana di Renato Nicolini, la proiezione del “Napoleon” di Abel Gance al Colosseo, con una giovane Stefania Sandrelli seduta lì ad assistere al film, un tempo meraviglioso oggi irriproducibile, eppure ripeto, ne sono certo, sicuramente vive ancora dentro Roberto, ricordo ancora il suo possesso della poesia, la sua capacità di citare Guido Gozzano, cioè il “frutto come bellezza concreta del fiore”. Pur di non ritrovarmi La Russa voglio sperare che, accanto alla sua trasfigurazione pretesca sopravviva la memoria anche di una celebre prosa di Arthur Rimbaud intitolata “Il cuore sotto la tonaca”, dove nonostante l’imminente sacerdozio vive, segreta e incancellabile, l’emozione dell’eros rivoluzionario della Comune di Parigi, grazie a un paio di calzettoni donati da una ragazza un attimo prima di finire in seminario. Dunque: Benigni al Quirinale.
