Il pittore Mario Schifano è il protagonista di un romanzo “cinematografico” di Andrea Pomella, Vite nell'oro e nel blu, pubblicato da Einaudi.
Schifano detestava ogni possibile definizione sia per la propria persona sia per le sue tele.
“Lavori, vanno chiamati, non ‘opere’, sono lavori…”, diceva. Altrettanto che lo si ritenesse un “artista pop”.
Ornella Vanoni chiese una copertina per un album, commettendo l’errore di rivolgersi a lui così: “Mario, sto facendo un disco un po’ pop…”. Non ebbe la cover. Stesso destino Claudio Baglioni, nonostante le insistenze compassionevoli, di chi scrive, l’album dove si trova Mille giorni di te e di me resterà senza un’icona firmata da Schifano. La ottennero invece alcuni musicisti palestinesi, andando a fargli visita in via delle Mantellate, portando in dono una kefiah.
Schifano si riteneva un “dylaniato”, e anche The Byrds erano tra le predilezioni musicali.
Nel romanzo di Andrea Pomella, il “seduttore” Schifano appare con parole da attico, meglio, “scortico” romano, però “d’autore”.
Le riportiamo, gli occhi coperti con il palmo della mano per pudore: “Bellezza rapace, lui magro e sofisticato in velluto nero, lei così provocante da far ingoiare la saliva ai preti”.
E ancora, volendo raccontare il contesto romano glamour degli anni Sessanta-Settanta: “Nobili coi visi lisci velati di crema, press-agent, ragazze a spalle nude con corpi filanti, giovanissime e già capaci di innominabili dissolutezze, la bocca disegnata con un rossetto morbido e i capezzoli bruniti come due gettoni telefonici”.

Ancora un primo piano del pittore: “È in quel momento che appare Mario Schifano. Fa il cascamorto con le ragazze, altra cosa che gli riesce benissimo, essendo bello come Rodolfo Valentino, ma anche sfrontato e irresistibilmente comico, tre qualità eccellenti che non gli fanno mai mancare il successo in amore”.
Infine: “Quando si ritrovano nudi nel letto, Mario ha la sensazione che lei sia il ritratto di ogni più spinto desiderio. È una creatura così incantevole da non credere che sia vera”. L’autore insiste: “Il corpo della ragazza, liberato dal maglione e dai jeans, gli appare sublime, gli occhi furbi e straripanti di malizia, il seno a goccia, le gambe lunghe e sottili che culminano con due creste iliache talmente perfette da sembrare piccole ali”.
Il risvolto che accompagna il romanzo di Pomella merita d’essere riportato per esteso: “Ci sono vite talmente grandi che sembrano inventate, come certe epoche del mondo. Come la luce che alla fine degli anni Cinquanta si spandeva su piazza del Popolo a Roma nell'ora del tramonto. Sfiorati da quella luce, un gruppo di giovani seduti ai tavoli del bar Rosati - capelli alla moda, sigarette agli angoli della bocca, Clarks ai piedi - guardano in cagnesco la città che rifiorisce dalle macerie della guerra. I loro nomi sono Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa e Francesco Lo Savio. Vengono dal popolo e stanno per prendersi la scena culturale e mondana del Paese. Da lì a poco infatti diventeranno i pittori comunisti che folleggiano con le principesse, bocconi succulenti per i paparazzi e inventori di nuove mitologie pagane. Ma intanto vivono la loro gioventù, lanciando la sfida ai geni artistici d'oltreoceano - Warhol, Rauschenberg, Johns - e frequentando Ungaretti, Moravia, Guttuso, gli Agnelli e i Rolling Stones”.

Mettendo da parte le considerazioni estetico-mercantili sui rapporti di forze tra via del Babuino e Park Avenue, soffermiamoci sulla progressione semantica redazionale accreditata, immagino, dall’autore: “Spandeva”, “capelli alla moda”, “sigarette agli angoli della bocca”, “Clarks ai piedi”, “pittori comunisti”, “folleggiano con le principesse”, “bocconi succulenti per i paparazzi”.
Ancor prima di materia letteraria, romanzesca, si intuisce un trattamento in prospettiva destinato a diventare film o serie televisiva.
Occorre forse immaginare Luca Marinelli, capelli alla moda, sigarette agli angoli della bocca, Clarks ai piedi, folleggiando con le principesse, trasfigurato in Mario Schifano? O Tano Festa con il volto di Riccardo Scamarcio? Ad Alessandro Borghi il compito d’incarnare Franco Angeli? Sul ruolo di Marina Lante della Rovere la scelta premierà forse la mono-espressiva Deva Cassel?
L’acme della storia dovrebbe mostrare la “Scuola di piazza del Popolo”, gli artisti menzionati come semidei mondani, cui aggiungere, tra gli altri, Mimmo Rotella, e magari, sebbene più anziano, Giulio Turcato, che aspirava a inventare un colore “oltre lo spettro”. Né potrà mancare il “realista” Renato Guttuso: questi, dopo decenni di polemiche con gli “astrattisti”, ravviserà infatti in Schifano e nei suoi “compagni di strada” la rivincita dell’iconico sull’aniconico, perfino politica.
Mario Schifano, stella, astro, bambino, satellite del firmamento artistico romano affacciato sul cosmo televisivo, impropriamente ritenuto un Andy Warhol minore, nostrano, autarchico, lui che, fra molto altro, custodiva l’amore per il ciclismo tra i sogni quotidiani. Schifano tifoso di Bartali.

Lo custodiva da quand’era ragazzino e, con una “Legnano” gialla, da viale Spartaco, Tuscolana, Cinecittà, raggiungeva Trastevere: la pasticceria “Valzani”, vicolo del Moro, lì era impiegato come “cascherino”, negli anni Cinquanta. Tra i suoi primi disegni, sulle pareti di casa dei genitori, papà archeologo, accanto a una tela intitolata “Campagna” firmata “Schifano Mario”, un ritratto, a matite colorate, proprio di Bartali.
Brillavano nelle sue tele anche cuori, palme, cavalli, il “Futurismo rivisitato a colori”, i “monocromi”, i “particolari di propaganda” con il logo “Esso”, perfino il ritratto di Leonardo da Vinci, colato con gli smalti sulla carta intelata: “Se gli americani hanno la Coca-Cola come simbolo di un loro Rinascimento, da noi sono invece pop proprio Leonardo, Michelangelo, Raffaello”. Verranno anche le ninfee, i vulcani, i “campi di pane”, le tele emulsionate: i visi femminili in primo piano al momento dell’orgasmo, perfino il segnale orario fotografato dalla televisione…
Mi sto però allontanando dal nostro discorso essenziale…
Sembra di rivederlo, Mario, in penombra nello studio di via delle Mantellate, gli schermi accesi sul flusso televisivo pronto a trasmigrare dal suo sguardo alle tele; polaroid e reflex a portata di mano, la bottiglia di “Perrier”, e su tutto la gioia, la stessa felicità di chi si è asserragliato nel fortino di un’infanzia eterna, anche da adulto. “Io sono infantile” è forse il quadro-manifesto programmatico della sua natura da artista.
Schifano, in verità, peccato però che nel film a venire di Pomella non porti traccia, aveva un sogno ancora: fare visita ai suoi lavori negli appartamenti di chi ormai li possedeva. Un desiderio che surclassava l’interesse per le stesse mostre, anche immaginarsi celebrato nei musei.

Schifano era generoso, desiderava conoscere l’amore altrui. Allo stesso modo riteneva che i disegni su cartoncino Bristol 100X70 andassero incorniciati con un listello di legno naturale, chiaro. Amava anche fare doni, nulla che vedere con altri artisti che all’ospite non avrebbero offerto neppure una foto (Kounellis), o Gino De Dominicis che, una sera, in un bar di via delle Coppelle, tra Pantheon e piazza Navona, dopo avere disegnato la sagoma della Renault “Twingo” su un tovagliolo, subito lo aveva stracciato perché nessuno potesse impossessarsene.
Schifano raccontava anche di voler competere con la rotativa, voleva essere più veloce delle macchine; meravigliosi i quadri realizzati con una semplice mano di smalto, in parte portata, assorbita da un foglio di giornale sulla tela per i suoi "paesaggi animici"; e poi ancora cuori, palme, stelle, futuristi, occhiali, vulcani, cardinali, Lenin nel suo mausoleo, le "M come Monica", i dinosauri di suo figlio Marco, amato più d'ogni altra creatura al mondo, fissati in un teratro degli affetti sulle tele…
Per la sala da pranzo della casa romana dell’avvocato Agnelli aveva realizzato invece un polittico colmo di alberi, cavalli, nuvole... All’inizio, in verità, Schifano si era presentato con un lavoro assiepato di bandiere rosse in tripudio, “Festa cinese”, il titolo. Marella, padrona di casa, aveva commentato: “Sai, Mario, qui da noi vengono anche persone straniere, non è il caso di accoglierle come fossimo comunisti”.
I suoi lavori custodiscono la cosmogonia romana di ciò che Tano Festa in un dipinto corale definiva “Per il clima felice degli anni Sessanta”. Nello studio di Palazzo Primoli ha mostrato in foto, giovanissima, Romina Power (proprio lei voleva che Mario le decorasse la Vespa) gli occhi da dea imbevuta nell’oro del mattino di Eleonora Giorgi, Paul Getty prima che lo rapissero tagliandogli un orecchio, Edoardo Agnelli disteso sul divano.
Nel cassetto della sua scrivania, custodiva invece un taccuino segreto personale, autobiografia visiva composta pagina dopo pagina da minuscoli ritagli di giornale: il trafiletto che ne riportava l’arresto per uso di stupefacenti, una minuscola foto di Ribot, la riproduzione di “Compagni compagni”, gli auguri di Stella Rossa per il 1973, i quadratini di Alighiero Boetti…

Anche Tano Festa, Franco Angeli, Francesco Lo Savio, Renato Mambor e Cesare Tacchi, gioventù artistica romana del tempo del boom economico, saliva al mondo della città monumentale dal regno non meno lucente della Tuscolana. Addirittura la prima mostra realizzata da tutti loro ancora ragazzi era allestita nei locali spogli della sezione del Partito comunista italiano di Cinecittà, settembre 1957.
In un magico negozio di tappezziere simile a un antro, vicolo del Bologna, Trastevere, ancora adesso, brilla nel buio delle pareti assiepate da vecchi divani del tempo andato ormai irreparabile, una sua superficie argentata dove appare il viso di una ragazza che si accarezza tra le gambe, felice nel notturno televisivo.
Peccato però che Schifano non abbia mai realizzato il quadro con cui desiderava restituire il miracolo della sua storia di ragazzo vissuto a un passo dalle baracche del Mandrione, e tuttavia presto baciato dal successo, meglio, dall’amore altrui, prodigi ad altri irraggiungibili; si sarebbe intitolato: “Crocifisso a un ferro di cavallo”. La metafora vivente di un ragazzo di viale Spartaco, Quadraro, diventato Mario Schifano.
Il romanzo di Andrea Pomella, strappato, copiato, saccheggiato in ogni modo dalle testimonianze e racconti presenti nel libro di Luca Ronchi (“Mario Schifano. Una biografia”, edizioni Johan & Levi) almeno ai miei occhi, ha il solo merito di avere ricordato, sia pure in mezza riga, Roberto Ortensi, che di Schifano era amico e, a suo modo, un regale, inenarrabile, nobile “maggiordomo”.
Del giorno del funerale di Mario, mi resta indelebile il ricordo dell'abbraccio con Robertino, noi in lacrime, la fine di un tempo irripetibile, lucente…
Questa però è già un’altra storia, che vive solo in chi lo ha conosciuto e gli ha voluto bene, oltre ogni misura, nell'estate invincibile dell'arte.
