Giuseppe Maggio debutta al teatro Off Off di Roma con L’amore è come un brodo di giuggiole, scritto e diretto da Tommaso Agnese (in scena fino all'8 dicembre) al fianco di Denise Tantucci. Una storia fra due persone che forse si ameranno per sempre o non si concederanno mai per davvero. Da un lato abbiamo lui, un trentenne che sua madre chiama fallito, un uomo dai sogni semplici e dalle emozioni intense, e dall’altro una donna che deve fare i conti con una relazione strana da cui sembra non voler davvero uscire. In camerino con Giuseppe Maggio abbiamo parlato anche di chi in Italia ha trent’anni per davvero e vuole metter su famiglia, di chi ha sogni “semplici” ma spesso impossibili da realizzare. Di società e di guerra, come quella dei suoi nonni che si sono pensati per un intero conflitto mondiale per poi ritrovarsi di nuovo, stretti tra le braccia dell’altra. Cos'è più bello, l'amore perso o l'amore trovato? Si chiedeva Lenny Belardo in The Young Pope di Paolo Sorrentino. E in un certo qual senso se l'è chiesto anche chi scrive dopo aver parlato di dolcezze finite ed epoche trapassate, del bisogno di farsi forza a vicenda nonostante un mondo che ci guarda di sbieco. Di questo e molto altro, abbiamo parlato con Giuseppe Maggio, attore di Sul più bello, Quattro metà, Un amore così grande e Baby, ora a teatro.
Giuseppe, debutti a teatro con L'amore è come un brodo di giuggiole scritto e diretto da Tommaso Agnese. Com’è stato per te passare dal piccolo e grande schermo al palcoscenico?
Il lavoro teatrale è senza dubbio molto complesso. Richiede una preparazione più organica: non basta lavorare sul personaggio, devi concentrarti soprattutto sul corpo. A teatro è fondamentale saperlo rendere espressivo in ogni momento. Per me è stato un percorso molto formativo: impari a usare il corpo e a ridurne i movimenti, mantenendolo comunque vivo e comunicativo. Credo che ogni attore, prima o poi, nella sua carriera debba misurarsi con il teatro.
Di solito si chiede a un attore com’è vedersi sullo schermo, a te chiedo invece com’è stato, per la prima volta, non rivedersi. Ti sei sentito più libero di sperimentare?
La sensazione è simile. Quando realizzi di aver fatto un buon lavoro a teatro, quello che hai dato è andato: non puoi più modificarlo. Al cinema, invece, ci sono il montaggio o il doppiaggio che possono intervenire a "salvarti". In questo senso la sensazione di aver fatto bene il tuo lavoro é simile, anche se il risultato finale è completamente diverso.
"Gli incontri sono come una partita a carte", si ripete in L'amore è come un brodo di giuggiole. Tutto dipende da come le giochi. Com’è stato il tuo primo incontro con il mondo della recitazione? E come te la sei giocata?
Frequentavo il liceo Mamiani quando sono venuti a fare dei casting, cercavano ragazzi giovani, non attori professionisti, per un progetto. Ho deciso di provarci: ho portato alcune foto, ho fatto il provino ed è andata bene. Così è iniziato tutto.
Se non fossi diventato un attore, cosa avresti voluto fare?
Ci sono sempre state tante cose che mi affascinavano. Fra queste la carriera medica, ad esempio, che considero una vera e propria missione. Anche quella dell’attore lo è, anche se certamente con un tipo di responsabilità diversa. Mio nonno e mio padre sono medici, quindi questo ambito è sempre stato presente nella mia vita. Mi piaceva anche giocare a calcio, ma non so se avessi abbastanza talento per farne una carriera.
In una recente intervista per Fun week hai detto: “Nella vita alcune persone sono in grado di rischiare e buttarsi, altre no. Il mio personaggio (a teatro, ndr) non l’ha mai fatto, ma capita anche a lui l’occasione”. Te sei uno che rischia o no nella vita di tutti i giorni?
Direi di sì. Qualche tempo fa ho fatto un provino per un film spagnolo senza parlare una sola parola di spagnolo. Mi sono fatto coraggio e ci ho provato. Credo di aver fatto anche molto ridere (sorride, ndr). Alla fine mi hanno scelto. Ti faccio questo discorso solo per dirti che il mio livello linguistico è buono ma ho imparato tutto da solo, non ho frequentato particolari corsi, eppure ho lavorato molto all’estero lo stesso. Mi sono buttato. Me ne son fregato, ci ho provato, ed è andata bene.
A proposito di esperienze internazionali. Hai interpretato Bernardo Bertolucci in Maria di Jessica Palud presentato a Cannes. In un’intervista a Vanity Fair hai detto di essere legato alla frase “Solo chi è nato prima della rivoluzione ha conosciuto la dolcezza del vivere”. Parole che provengono da “Prima della rivoluzione”, il secondo film di Bertolucci. Come osservi i tuoi coetanei? Dov'è finita oggi la rivoluzione?
Bertolucci che aveva vissuto il Sessantotto, ha riflettuto su quella rivoluzione che fu al tempo stesso un’illusione, con ideali che in parte sono stati poi smascherati. Da qui credo si possa ricavare il senso di quell'espressione per me molto importante. Mi fa pensare alla dolcezza dei miei nonni. Una dolcezza che apparteneva a un’epoca in cui le cose importanti erano le più semplici: venendo dalla guerra, la prima domanda che ti facevano era 'se avessi mangiato'. Questa tenerezza, che nasceva dalla semplicità, contrasta con l’impeto di quegli anni: meno rivoluzionari forse, ma più intimi. Credo che Bertolucci volesse esprimere qualcosa di simile. Nel suo secondo film, ambientato in un dramma familiare, c’era una critica alla famiglia borghese, ma raccontata con un velo di malinconia. Era l’umanità di quegli anni: quella di Sophia Loren, che prima di buttare il pane lo baciava. Un gesto che racchiudeva una sensibilità diversa, un valore per le piccole cose che oggi sembra quasi perduto.
Vorrei farti una domanda prendendo spunto da un recente intervento di Alice Rohrwacher. Durante un incontro al Cinema Troisi, la regista ha chiesto al Maestro Coppola quale domanda farebbe a qualcuno per conoscerlo meglio. Vinicio Marchioni qualche tempo fa ci aveva risposto così: "Chi ami?". E tu, che domanda faresti?
Mi verrebbe da rispondere “sei felice?” È un buon punto di partenza, ti fa capire tanto della persona che hai di fronte. Se queste risposte sono determinate da una vita, da un mondo che non lo/la soddisfa. E se è così allora si raccontano le scelte, la capacità di osare oppure no e tanto altro ancora. Chiedere a qualcuno se è realmente felice è molto interessante e se la domanda è vera, sentita, si può riuscire ad andare oltre la superficie. Alla fine quello che conta nella vita è se sei felice o no.
I trentenni di oggi vengono spesso giudicati e visti dai più grandi, esattamente come ci mostra questo spettacolo (penso soprattutto ai continui scontri tra il tuo personaggio e la madre) come una generazione di infelici, inetti, incapaci, falliti. Cosa risponderesti a chi davvero la pensa così?
Generalizzare è difficile. Tuttavia, stiamo vivendo un momento storico con due guerre dietro l’angolo che hanno un’influenza importante su di noi. È chiaro che esista un microcosmo con una quotidianità tutta nostra ma se noi volgiamo lo sguardo verso quel macrocosmo, fatto di morti, devastazione, potremmo notare che, dalle Torri gemelle in poi abbiamo avuto a che fare con le pandemie, le guerre, le crisi economiche. Da sempre, da che ho ricordo, viviamo in un momento “difficile” che le generaziooni precedenti hanno vissuto diversamente. Negli anni Ottanta, l’Italia era tra le più grandi potenze mondiali, la gente aveva più coraggio. Questo è un punto di partenza che non può essere però una scusante per non fare. Nel mio settore ci sono moltissimi attori, miei coetanei, parecchio bravi e il settore del cinema è, come sappiamo, in crisi, dunque chi ce la fa, riesce perché ha caratteristiche di un certo tipo. Prima tante persone erano ricche, famose e incapaci, oggi è più difficile. Se penso alla mia generazione o a quella successiva ci sono tantissimi professionisti bravi, che non hanno nulla da invidiare ai talenti stranieri. Insommma, per concludere, credo che serva rimboccarsi le maniche e pensare che alla fine sta a noi passare dal Medoevo a un nuovo Rinascimento. Può essere anche stimolante, non credi?
Quale film o spettacolo inquadra meglio la nostra generazione?
Domanda difficilissima. Forse Euphoria può rispecchiare una fetta, una parte della generazione di oggi anche se quella che raccontano è la gen americana. Ci sono alcuni film e serie che provano a raccontare la semplicità dei giovani di oggi, penso ad esempio a Quattro metà di Federici, in cui ho lavorato, in cui ci sono dei ragazzi che vogliono sposarsi, avere un figlio. Un aspetto questo, normale, che si racconta sempre meno. Si racconta anche sempre meno di una classe sociale che negli anni si è ridimensionata molto. La borghesia aveva un raggio molto ampio, lo stesso Sordi nel Borghese piccolo piccolo è in fin dei conti una persona normale, credo che questa classe sociale stia scomparendo, un po’ perché i ricchi sono sapere più ricchi e i poveri sempre più poveri. È una classe sociale che ha smesso di sognare e tante cose, bisogna dirlo, gli sono precluse: una famiglia, dei figli. Sarebbe bello tornare a raccontare tutto questo. Del resto, i miei coetanei vivono questa realtà e si chiedono se possono fare un figlio, come potranno gestire una gravidanza, la casa in affitto, eccetera, eccetera. Basta pensare ai dati, ai numeri, anche allo stipendio medio in Italia che è sempre più basso.
Sogni un cinema che possa raccontare tutto questo?
Sì, perché il cinema del passato lo faceva. Il grande cinema italiano. Uno dei miei film preferiti è C'eravamo tanto amati, veniva raccontata la normalità di tre amici che erano innamorati della stessa donna. Uno segue una strada, diviene un’imprenditore, gli altri no. Poi c’è lei, si rincontrano e le loro sono vite normali. Pensaci. Quanto è bello quel film? Poi certo bisogna specificare che le vite normali sono tutte, anche quella di chi vive in una situazione di estrema miseria. Credo però che quello che manca oggi sia il racconto della quotidianità di un ragazzo come noi che deve fare i conti con una società in cui generalmente il tempo è determinato e non indeterminato.
Per alcuni lavori sul grande e piccolo schermo hai preso quindici chili, altre volte hai fatto scene di nudo integrale. A cosa diresti tassativamente di no?
Io ho detto no a una cosa che secondo me andava al di là di quelle che potevano essere le richieste plausibili. Un atto sessuale vero non credo sia necessario in scena. Ognuno è libero di fare ciò che vuole, sia chiaro. Tuttavia credo che la bellezza del cinema sia raccontare un desiderio, un momento di estrema passione ma in maniera cinematografica. Se ci pensiamo bene, il termine “osceno” deriva da "fuori dalla scena", perché alcune cose che non andavano fatte non potevano essere realizzate davanti agli spettatori, erano appunto fuori dalla scena. Poi questo termine è divenuto con il tempo totalmente dispregiativo. Tornando alla tua domanda, penso che un atto sessuale vero in un film lo trasformi in un film porno. Provo a fare un altro esempio. Se ho una scena in cui devo picchiare a sangue una persona io non posso farlo, nel cinema devi raccontare qualcosa, anche di drammatico, forte, intenso e struggente, ma è nella bravura del regista e dell'attore riuscire a trasmettere queste emozioni senza compiere di fatto l'azione.
Qual è stata per te l'emozione più difficile da trasmettere al cinema?
Nella mia carriera non ho mai avuto, fino a questo spettacolo teatrale, grande credibilità nella commedia. Nel film in cui ho preso 12 chili è successo. E L'amore è come un brodo di giuggiole ha delle cose che vanno un po’ più verso la commedia. In questo senso, questo spettacolo per me è stato un doppio banco di prova, mi auguro di essere riuscito a strappare un sorriso tra il pubblico.
Un amore così grande, Perfetta Illusione, Quattro metà, Sul più bello e ora L'amore è come un brodo di giuggiole. Ma alla fine Giuseppe Maggio, cosa ha capito dell'amore?
L’amore richiede sacrificio. Viviamo in un mondo in cui, di fronte alle difficoltà, spesso scappiamo anziché affrontarle. La società odierna ci offre una quantità infinita di opzioni: nuovi lavori, nuovi oggetti, nuove esperienze. Quando apro i social, vedo un'infinità di persone e opportunità. Ma in realtà quello che vediamo é solo una parte di queste persone, una visione parziale che annebbia la mente. Questo modo di pensare può portare qualcuno a credere che, se ci sono problemi, in generale, non valga la pena di risolverli, soprattutto quando il mondo ti offre così tante alternative. Ma ciò che vediamo sui social non è la realtà. È una versione filtrata, parziale, mentre la vita è quella che hai davanti, quella che costruisci ogni giorno. Dobbiamo imparare a dare valore a ciò che abbiamo, a lottare per ciò che è importante, a impegnarci fino alla fine anche in amore. Le grandi storie d'amore, come quelle dei nostri nonni, sono quelle che hanno richiesto sacrifici profondi. Ricordo che i miei nonni si erano conosciuti in Puglia prima della guerra. Poi la guerra li ha separati, ma durante tutto quel tempo si sono pensati e, quando finalmente si sono ritrovati, hanno capito che niente avrebbe avuto più importanza dello stare insieme, in due. Oggi tutto sembra più difficile, ma credo che la relazione sia qualcosa che scegli. Non è mai casuale, ed è una scelta che ti fa sentire che non sarai mai più solo, qualunque cosa accada.