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Green Day, il nuovo album “Saviors” è tosto e sfacciato, ma perché Billie Joe Armstrong e soci dovrebbero avercela col sogno americano?

  • di Emiliano Raffo Emiliano Raffo

21 gennaio 2024

Green Day, il nuovo album “Saviors” è tosto e sfacciato, ma perché Billie Joe Armstrong e soci dovrebbero avercela col sogno americano?
Il quattordicesimo album dei Green Day è una botta punk-rock insaporita da evidenti spezie inglesi. Canzoni tese che si fanno cantare e ricordare. Non per i testi, forse, sempre un po’ generici. L’America con cui il frontman Billie Joe Armstrong ha un contenzioso aperto da anni la conosciamo ormai a memoria: ignorante, razzista, preda di media senza scrupoli. Ma perché proprio i Green Day dovrebbero dire che “The American dream is killing me”?

di Emiliano Raffo Emiliano Raffo

Sarà che le prime uscite discografiche di un nuovo anno godono sempre di una certa attenzione – l’anno appena concluso si è fatto da parte inondato dai resoconti e i dischi nuovi sono pochi –, ma il positivo voto unanime con cui è stato accolto “Saviors”, quattordicesimo album dei Green Day, lascia stupefatti. Non perché sia un brutto album (non lo è, affatto) o perché i Green Day siano incapaci di guizzi (ne sono capaci). Più che altro perché ci dev’essere un momento opportuno e un momento meno opportuno per “essere i Green Day”. Gennaio 2024, a quanto pare, è un momento buono per sputare fuori pop-punk di ottima fattura che richiama, ostinatamente, gli anni in cui tutta quell’urgenza era un candelotto di dinamite acceso. Ora siamo alla foto di quel medesimo candelotto acceso, con la differenza che oggi Billie Joe Armstrong gioca intelligentemente di compensazione. Capelli appuntiti, faccia da schiaffi e atteggiamento da “24h party people” non sono più realisticamente proponibili? Nessun problema, Armstrong compensa con una scrittura solida, più classic-pop rispetto a quel “Dookie” che, nonostante altri successivi trionfi commerciali, è sempre rimasto, dal 1994 a oggi, il punto di riferimento per chiunque voglia entrare nell’universo Green Day.

Dopo la parentesi bubblegum e prima di un classic live

“Saviors” esce a quattro anni da “Father of all…”, disco forse eccessivamente criticato, persino malinteso nonostante la semplicità dell’idea sottesa. Non era una dichiarazione d’intenti, solo una scanzonata botta di bubblegum-rock, come se i Green Day, in quella circostanza, non fossero figliocci dei Ramones, bensì di Cheap Trick, Joan Jett e le fm di provincia. Esce anche prima che i Green Day portino negli stadi, nessuna traccia esclusa, “Dookie” e “American idiot”, i due bestseller del loro catalogo. Ecco quindi un disco, “Saviors”, sospeso fra una dimensione quasi inedita dei Green Day (“Father of all…”) e una dimensione fin troppo familiare della band (gli imminenti live). E deciso a proporre, finemente restaurato, il suono tipico Green Day. Per riuscirci, in sede di produzione è stato richiamato Rob Cavallo, che al mixer mancava dal 2012. Di più: l’album è stato registrato ai Rak Studios di Londra, per cui se avvertirete, netto, un certo piglio Brit è perché Armstrong veste con orgoglio la sua passione per la cultura inglese: “Sono andato a molte partite di calcio: Arsenal, Leyton Orient, Fulham. Sono andato al The Den per vedere il Millwall. È stato fantastico. Se vuoi davvero sperimentare la cultura britannica, è quello che si deve fare”.

Testi generici, pezzi abbastanza memorabili

“Saviors” ha un tiro pazzesco e qualche ritornello da paura. Per il resto si assesta su livelli medio-alti. Medi quando Armstrong e soci cercano di sintetizzare un’epoca in un paio di versi scivolando, più spesso che no, nel generico. Le evening news, per Armstrong, sono il “favourite cartoon” (“Fancy sauce”), capite? Il sogno americano sta uccidendo Billie Joe, capite (“The American dream is killing me”)? Proprio lui, che il sogno americano lo ha vissuto con i Green Day? A tutt’oggi la band punk-rock più famosa di sempre? Sono partiti underground e hanno finito con i musical, non hanno mai conosciuto le prigioni del genere, hanno spaccato, hanno vinto tutto. Perché dovrebbero avercela col sogno americano? Più interessanti, sparsi su una sequenza di brani che suona come un trionfale mordi e fuggi, i vari incisi beatlesiani. Il mood, nel complesso, è comunque canterino e sfacciato. In “Look ma, no brains!” i Green Day fingono di avere vent’anni e ci riescono bene, “Bobby Sox” è un’altra perla bubblegum e “1988” corre su binari filologici che ci riportano alla stagione del 1977 inglese. La maturità di “Father to a son” suona abbastanza studiata, più naturale l’English flavour di “Goodnight Adeline”. Lo sdegno per i media, vecchi e nuovi; un’America divisa e percorsa da dolorosi rivoli di razzismo. Tutto un po’ generico, come dev’essere, forse, per un fiero disco punk-rock che, al di là di ogni sottile ambizione sottocutanea, vuole solo essere la colonna sonora di un giorno più spavaldo.

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