Quando ero giovane, o meglio, quando ero piccolo, sono stato un animalista. Anche abbastanza convinto. Un animalista bastian contrario, quella è una cosa legata alla genetica, ci si nasce, per cui invece di essere iscritto al Wwf ero inscritto all’Enpa, ma pur sempre un animalista. I miei mi raccontano come una volta, avrò avuto neanche sei anni, ho tenuto testa a un adulto, addirittura un medico, facendogli notare con una certa veemenza che quel che aveva appena fatto, eravamo in montagna e lui aveva infilato la sua picozza dentro un formicaio, distruggendolo, era un gesto assolutamente incivile, vergognoso, dimostrando quanto appunto io tenessi al mondo animale. Mica è un caso che ora faccio il podcast Bestiario Pop, e anche quanto sin da piccolo io fossi un cagacaz*i. Poi ho probabilmente incontrato un qualche vegano di quelli che ti vessano dicendoti che mangi carne morta, che sei un onnivoro, roba del genere, e questa causa è uscita dalle mie priorità, ma resta che gli animali mi piacciono, almeno da lontano, e che comunque non farei mai del male a un animale (li mangio quando sono già morti, mica li uccido io, per rispondere a quell’ipotetico vegano e no, non lo ucciderei io, ma non assemblerei neanche una automobile, o non opererei un mio caro a cuore aperto, tante sono le cose che non faccio e che qualcuno fa per me). Tornando quindi agli animali, che chiaramente non sono l’argomento che in questo mio pezzo andrò trattando, anzi, che sto già trattando, sin da piccolo. Anzi, tanto più da piccolo, quando ero un animalista iscritto all’Epna, quando in tv mi capitava di vedere un film western, quando io ero piccolo i film western erano molto in voga, io ovviamente facevo sempre il tifo per quelli che ai tempi si chiamavano indiani, cioè per i nativi. Sempre per quella faccenda genetica di cui sopra, comunque, quando in tv mi capitava di vedere un film western, ci rimanevo sempre molto male, me ne addoloravo addirittura, pur sapendo che era finzione, quando a un certo punto accadeva che il cavallo del protagonista si azzoppava e lui, il protagonista, un cowboy, si trovava costretto a sparargli, uccidendolo. Capitava praticamente in tutti i film, il cavallo si azzoppa, il cowboy non vuole farlo soffrire e gli spara. L’idea che per non far soffrire qualcuno cui si vuole bene gli si possa sparare, col tempo, l’ho visto interpretato in varia maniera, da chi lo ha fatto poeticamente uccidendo i personaggi di finzione che ha inventato. Stephen King ci ha costruito su quel gioiellino di Misery non deve morire intorno, perché non per tutti uccidere il cavallo azzoppato è evidentemente la sola via praticabile, alle varie battaglie per l’eutanasia, e no, non intendo allestire paragoni tra un cowboy che spara al suo cavallo e un caro che interviene al fianco di qualcuno per praticare l’eutanasia, anche se il concetto, in fondo, è un po’ quello.
Di fatto, ogni volta che mi capita di veder qualcuno o qualcosa cui sono particolarmente affezionato finire in qualche modo male, l’idea del cowboy che spara al proprio cavallo mi torna in mente. Probabile che io abbia qualche tara sulla quale forse dovrei andare ad approfondire, ma tant’è. Succede quindi che io, come tanti di voi, legga la notizia che Condé Nast, dopo aver acquisito cinque anni fa Pitchfork, ricordiamolo per chi avesse problemi di memoria sul medio tempo, quella che fino a ieri veniva definita la nuova Bibbia del rock, una recensione lì era una sorta di certificazione di qualità, se era buona, o di ignominia, se era brutta, e quasi sempre era brutta; ecco Condè Nast ha oggi fatto sapere che Pitchfork verrà assorbita da Gq, sancendone in qualche modo non solo la morte, ma la morte per sodomia. La cosa, nei fatti, era nell’aria da un po’, ma per nostra natura siamo ottimisti, altrimenti ci spareremmo tutti appena ne avremmo occasione. Il fatto che una brutta notizia sia prevista non sempre equivale a che quella brutta notizia diventi in effetti tale. La concomitanza di questa notizia con quella che Cairo Editore ha deciso di chiudere definitivamente Airone, che a sua volta era un cavallo azzoppato che continuava a zoppicare vistosamente, Bell’Europa, For Men Magazine, In Viaggio e Antiquariato a rendere il tutto, se possibile, ancora più apocalittico, almeno guardando l’editoria. Ma torniamo a Pitchfork. Molti, leggendo la notizia, sui social hanno riso, memato, fatto allegorici brindisi, e in questo essersi spesso posti come arroganti teste di caz*o non avrà certo aiutato a creare un alone di simpatia intorno a loro, quell’aria snob da hipster del caz*o. Parlo delle firme di quel sito, il non detto, a volte anche il detto, che era un magazine ormai moribondo da tempo, divenuto irrilevante e addirittura vergognoso. Tutto in parte vero. Chi scrive, che nella vita si occupa prevalentemente di musica, da anni, forse proprio dall’ingresso in Condé Nast, ha smesso di consultarlo quotidianamente per sapere come girava il vento, come invece faceva, facevo (caz*o, questa cosa della terza persona mi fa pensare a me stesso come a una sorta di Maria Grazia Cucinotta), per altro ingrassando, ho messo su anche io un paio notevole di tette. Sono tornato a parlare di Pitchfork e del mio non consultarlo più quotidianamente, il discorso delle tette di Maria Grazia Cucinotta e delle mie l’ho momentaneamente accantonato, anche si immagino che avesse registrato un certo interesse in voi lettori. Sorte, per dire, che Pitchfork condivide con Salon.com, dove ogni giorno mi andavo a leggere le imprese di Marcus Greil, o di SucideGirls.com, dove andavo a cercare altro. No, scherzo (a voi stabilire se scherzo nel senso che ci vado ancora o che scherzo nel senso che non ci sono mai andato, parlo di SuicideGirls.com).
Gioire perché qualcosa che è stato rilevante oggi, divenuto irrilevante, chiude, lasciando anche da parte chi ci lavorava, che potrebbe perdere il posto, seppur Condé Nast suppongo li ricollocherà altrove, esattamente come andrà a fare Cairo Editore coi suoi giornalisti, lascia aperta la strada a una riflessione anche malinconica su come in fondo si faccia presto, oggi come oggi, a disaffezionarci a quel che un tempo ci era caro. L’idea che si spari al cavallo per non farlo soffrire è buona solo nei film western, che del resto facevano passare per teste di cazzo i nativi americani, mai i cowboy. Di più, lascia aperta la strada a quella strana forma di odio, sicuramente figlio della rabbia, rabbia non si sa bene dovuta a cosa, per cui qualcosa che finisca e finisca male, specie se un tempo aveva intorno a sé un certo blasone, una allure di glamourness, non fa che riempirci di gioia. I vari casi della Ferragni o della Lucarelli, con le debite differenze, ci dicono sempre il medesimo concetto. Solo che, e veniamo al punto, il fatto che Pitchfork, per cui scriveva gente come Simon Reynolds, non esattamente il primo stronzo che passava, tanto per fare un nome, lascia intendere come oggi la critica musicale, più che il giornalismo musicale, la prima dovrebbe dedicarsi all’approfondimento del lato artistico, il secondo alle notizie che intorno alla musica ruotano, stia davvero tirando le cuoia. Stia tirando le cuoia mentre intorno stanno facendo una festa, si direbbe dai commenti sui social. Forse perché la musica è sotto gli orecchi di tutti, e non serve più qualcuno che ci dica se vale o meno la pena di spendere due spicci per comprarla, tanto è gratis. O forse perché i tempi non prevedono proprio più spazio e tempo per qualsiasi tipo di approfondimento, viaggiamo sui reel di Tik Tok che hanno sostanzialmente compresso i quindici minuti di Andy Warhol in quindici secondi, poco meno dei ventotto secondi di lettura media di un qualsiasi articolo online, forse fatta eccezione dei miei, diciamolo a voce alta. Siamo distratti, frammentati, evaporizzati, viviamo in superficie, come dei surfer, ma invece che stare al largo, surfiamo sul bagnasciuga, e la musica, che rispetto a prima è sì più fruibile, infatti è ovunque, sempre e comunque, è divenuta poco più di un sottofondo, come un tempo capitava a certe reinterpretazioni per sax dei grandi classici dentro gli ascensori dei grattacieli. Quindi vedere Pitchfork morire, un colpo di fucile del cowboy Condé Nast, da una parte ci fa gioire perché erano boriosi e adesso stanno lì a schiattare, maledetti hipster di mer*a, dall’altro ci rasserena, perché occhio non vede cuore non duole. Del resto, i giovani artisti hanno fiutato il tutto da tempo, non si interfacciano con la critica, non cercano un rapporto con chi al massimo potrebbe stroncarli, credo la vedano così, andando via di video e post, gestiti da loro cugino, l’atteggiamento da stronzi della sala stampa a Sanremo con Ultimo lì a rendere plastica la situazione. Il risultato, però, è la prospettiva di un mondo che non prevede la profondità, immagino il corrispettivo della Terra per i terrapiattisti, una tavola senza niente sotto, neanche ti viene la voglia di scavare.
Forse, ma qui mi rendo conto che sto clamorosamente assumendo le sembianze di un cavallo, anche azzoppato, dovreste tutti cominciare ad avere un po’ cura di chi, come me, passa il tempo a approfondire la conoscenza della musica, anche se per questioni di comprensibilità poi uno si ritrova a parlare delle tette della Cucinotta invece che di dinamica, o di dita infilate nel culo invece che di questioni meramente tecniche. Dovreste, e mentre lo dico vedo che il cowboy che fino a ieri era il mio compagno inseparabile mi si sta avvicinando, gli occhi lucidi, la mascella stretta, il fucile in mano, prendervi cura di noi, coccolarci, leggerci, stare anche a sentire davvero quello che diciamo, perché è vero che spesso ci ritroviamo a descrivere canzoni che avete già sentito, con giudizi che magari non condividete, ma in fondo il nostro lavoro è quello di fornirvi i mezzi del mestiere per farvi un’idea più circostanziata di quel che, a gusto personale, vi potrebbe anche piacere parecchio, ma magari è una cagata pazzesca. Quando mai non dovessimo esserci più, avrete notato che molti di noi si ritrovano già da tempo a scrivere per magazine non di settore, su via, non siate distratti, vi resteranno le notiziole dei giornalisti musicali, quelli che vi dicono che è uscito questo o quel disco, senza avere la minima capacità, ma neanche la minima voglia, di andare un po’ a spiegarvi di cosa si tratta. Quelli, in genere, se una testata chiude vengono riassorbiti altrove, a si ritrovano a parlare di giardinaggio laddove prima parlavano di Sanremo, quasi tutti in fondo sono arrivati a parlare di musica perché nelle pagine di spettacolo si era creato un posto, per una sostituzione di maternità, un pensionamento o quel che è. Noi no, continueremmo imperterriti a scrivere di musica duri e puri, piuttosto che parlare d’altro meglio proprio cambiare mestiere. Io problemi non ne avrei comunque, con le tette che ho posso sempre aprire una pagina di OnlyFans.